domenica 14 dicembre 2014

« La vita fugge, et non s’arresta una hora »

Tutto il Canzoniere, come altre espressioni dell’opera di Francesco Petrarca (Rerum vulgarium fragmenta), è scandito dall’ossessione della fuga del tempo terreno e della continua comparazione tra temporalità ed eternità. Potremmo dire anzi che l’idea stessa della composizione e dell’ordinamento dei Frammenti prenda avvio dal desiderio di lasciare un’opera capace di vincere l’azione distruttiva del tempo e di sopravvivere al silenzio della morte e dell’oblio, scelta già voluta per i suoi carmi dal poeta latino Orazio. Questo motivo, ricorrente nelle liriche composte tra il 1348 e il 1356, ritorna nel sonetto 272, una delle prime composizioni facenti parte della sezione del Canzoniere “in morte di madonna Laura”.
Petrarca reinterpreta dunque con grande originalità e in un’ottica cristiana il topos classico della fuga temporis, che trovava negli amati classici latini, specialmente nel De Brevitate Vitae di Seneca e nelle opere di Sant’Agostino. Il motivo della fugacità del tempo, proprio di varie liriche del Canzoniere, diventa qui lo spunto da cui prende avvio una riflessione sulla vanità di tutte le cose, riportandoci ai motivi del sonetto proemiale. In questa lirica però, più che in Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, il poeta dà voce alla sua delusione e alla sua sofferenza, e lo fa in una maniera piuttosto elegante e retorica, arricchendo il testo dipolisindeti, anafore, paratassi, allitterazioni, e immancabili metafore. La sua amarezza si avverte chiaramente nella riflessione sul presente e sul passato, che svolge con varieoscillazioni sull’uno o l’altro tempo, fino al v.10; qui, a metà della prima terzina, la riflessione si concentra sul futuro, che la morte di Laura ha privato di ogni prospettiva.
petrarcaa
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;            4
e ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sì che ‘n veritate,
se non ch’ì ò di me stesso pietate,
ì sarei già di questi penser’fòra.                        8
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ‘l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;              11
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.                14
Ascolti consigliati durante la lettura: Ildebrando Pizzetti “La vita fugge e non s’arresta un’ora” (rarità, da Novecento italiano)

Miserere Nostri - Thomas Tallis


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sabato 6 dicembre 2014

Tra didattica e tecnica: la maestrìa «severa e libera» di Muzio Clementi

Nato a Roma nel 1752, quindi poco prima di MozartMuzio Clementi è uno dei  musicisti a cui è più debitrice la letteratura pianistica, non solo per le sue opere musicali, quanto per l’attività instancabile di promotore del nuovo strumento (al punto da dedicarsi, da imprenditore, alla costruzione) e per quella di studioso della tecnica esecutiva e diinsegnante.
Da Roma Clementi si trasferisce in Inghilterra nel 1766, al seguito di Peter Beckford e nel 1773 è a Londra, dove inizia l’attività di maestro di cembalo al teatro di Haymarket e contemporaneamente di insegnante. Quando la sua fama di pianista comincia a crescere, affronta un viaggio nel continente, nel corso del quale ha occasione di misurarsi con Mozart, allora conosciuto soprattutto come pianista.
Ritornato a Londra, dove rimane per una ventina d’anni stabile, torna a dedicarsi completamente all’insegnamento, inaugura un’attività di editoria musicale associandosi con Collard, con il quale poi apre anche una fabbrica di pianoforti, negli ultimi anni del secolo. Nel 1802, approfittando della relativa tranquillità politica seguita alla Pace di Amiens (è il periodo delle guerre napoleoniche), ritorna sul continente e viaggia per la Germania, l’Austria, la Russia. Ritornerà a Londra nel 1810, dopo un’altra ondata di conflitti che ha insanguinato l’Europa; la sua fabbrica di pianoforti è andata distrutta in un incendio del 1807, e Clementi ripiega ancora una volta sull’insegnamento pianistico.
A scorrere l’elenco degli allievi di Clementi si trovano quasi tutti i più importanti nomi del pianismo ottocentesco: B.A.Bertini, J.Field, Ignaz Moscheles, Carl Czerny, Karl Cramer… sono fra i più significativi, e molti di loro, come il maestro, si dedicheranno alla didattica e al perfezionamento della tecnica pianistica. Sono, in effetti, quasi tutti nomi ben noti ai giovani pianisti che ancora oggi si formano in gran parte sugli esercizi e sui metodi didattici pubblicati da autori di questo calibro.
La parte principale dell’opera di Clementi è costituita dalla musica per pianoforte, per cui è rimasto giustamente famoso: anche se spesso hanno un carattere più che altro virtuosistico e tecnico, non sorretto da un’intensità espressiva pari a quella delle Sonate di Mozart (per non parlare di Beethoven), sono più che gradevoli da ascoltare, e non mancano comunque di sostanza. Nel tempo il nome di Clementi è rimasto legato soprattutto alle opere tecnico-didattiche: la raccolta Gradus ad Parnassum, o l’arte di suonare il pianoforte esemplificata in una serie di esercizi negli stili severo e libero (rif. al contrappunto), che costituisce ancor oggi banco di prova degli studi avanzati di pianoforte, unisce l’esercizio tecnico alla finezza compositiva.
Le Sonate di Clementi per pianoforte sono oltre 100 (comprese le sonatine e le sonate per due pianoforti), e coprono gran parte dell’arco della sua carriera di compositore, dal 1756 al 1821: vi si trovano lavori di diversa natura, data la classificazione molto libera di “sonata”, in uso all’epoca in Inghilterra, e a cui Clementi si adeguò.
Tra le sonate più famose menzioniamo: l’op.14 n.3, pubblicata nel 1784, l’op.26 (la preferita di Beethoven); le tre sonate dell‘op.33, del 1794, e infine le due sonate dell’op.34, assieme aidue capricci per pianoforte. Uno dei maggiori esecutori di Clementi, non a caso tra i più raffinati, è certamente Vladimir Horowitz.

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domenica 23 novembre 2014

La «morbidezza» decadente di Edvard Grieg

Grieg, il più significativo compositore norvegese dell’Ottocento non ha lasciato molte composizioni di grande respiro: il Concerto per pianoforte e orchestra op. 16 in la minore è effettivamente una delle poche. Per il resto, preferiva i pezzi brevi o le suite di pezzi, legati fra loro tematicamente o programmaticamente: un atteggiamento a cui può darsi non fosse estranea la difficoltà a sottoporsi prolungati per la salute cagionevole, ma che è perfettamente in sintonia con lo spirito di Schumann, a cui Grieg è comunque legato, e che interpreta bene l’idea del diario e del libro di schizzi, che registra impressioni, confessioni e pensieri fuggevoli. Anche l’opera più famosa di Grieg, Peer Gynt, è una suite ricavata dalle musiche di scena per la commedia di Ibsen e nella sua produzione una parte preponderante è costituita dai circa 150 Lieder per voce e pianoforte e da un numero elevato di brani pianistici, fra cui spiccano le dieci raccolte di Pezzi Lirici, per un totale di una settantina di pezzi, tutti molto brevi. I Pezzi Lirici vanno dalla nota autobiografica al quadretto descrittivo della rielaborazione di melodie popolari norvegesi, toccando toni di allegria spensierata, di nostalgia, di spirito fiabesco, per arrivare alla danza e alla festa popolare. La lunga successione dei Lyriske Stykker – ha scritto Olav Gervin -, che costituisce la spina dorsale dell’abbondante produzione pianistica di Grieg, non presenta in verità un valore sempre omogeneo: ai pezzi salottieri e fin troppo sentimentali, dalla psicologia minuscola e borghese, si associano danze anch’esse stilizzate che poco conservano della rustica, immediata fragranza dei pezzi contadni. Nessuna morbidezza decadente, simile a tanto pianismo fin de siècle, tuttavia, ché armonicamente la sua frase musicale si riscatta con frequenti modulazioni suggestive e inattese. Restano però alcuni splendidi quadretti che si riferiscono più o meno programmaticamente ad una natura silenziosa e sognante, da cui dedurre prontamente e con luminosa ispirazione un lirismo fresco ed elegiaco.
I giudizi su questi pezzi variano molto, e c’è anche qualche storico che li valuta del tutto negativamente, e certo, non si tratta di composizioni di grande profondità o di sofferta ricerca formale, ma rimangono pagine più che gradevoli, leggere in qualche caso, ma fondamentalmente sincere, non pompose né retoriche. Alcuni poi sono francamente molto divertenti, come la Marcia dei nani il Giorno di nozze a Troldhaugen, apparentemente semplici, ma poi tutt’altro che banali da eseguire. Il pianista sovietico Gavrilov, che dichiara di aver avuto in Grieg uno dei suoi primi idoli musicali, li esegue con partecipazione e palese simpatia, con tecnica ineccepibile.

Ascolti consigliati: 
Edvard Grieg, Concerto per pianoforte e orchestra in la minore, op. 16
Peer Gynt, Suite n.1

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lunedì 17 novembre 2014

Riccardo Muti e il concerto “impossibile” al teatro Giordano


È più facile trovare i biglietti per la finale di Champions League che per il Giordano a Foggia, tanto più se parliamo di un’inaugurazione diretta dal maestro Riccardo Muti. A caccia dei biglietti online, la cui vendita era stata pubblicata dal Comune di Foggia (alle ore 12.00 di oggi), molti ne sono rimasti sprovvisti. La polemica esplode in  rete. “Alle 12.00 di oggi 17 novembre Bookingshow aveva esaurito i posti disponibili per il concerto inaugurale del Teatro Giordano! Che potenza! Sindaco, quanti posti sono stati destinati alla vendita online? Quanti riservati a monte?”. Una domanda ricorrente cui si risponde in vari modi. Chi snobba l’evento – della serie se non posso venire non ci tengo proprio – qualcun altro ripete che è un copione già visto, altri indignati sottolineano che era meglio non pubblicizzare affatto un’iniziativa già ipotecata. In molti vogliono conoscere i nomi dei “privilegiati”. Biglietti sempre ai soliti, “pubblico pagante” si fa per dire, e via di questo passo.

Giuliani: “Leggende metropolitane sui biglietti spariti”

Certo il numero di biglietti disponibili in un teatro di quasi 500 posti è stato bruciato in dieci minuti, qualcuno esagera: “Aperto alle 12.00, ticket finiti alle 12.01”. L’assessore Anna Paola Giuliani ridimensiona. “Questa è una leggenda metropolitana”. Ma la rete rivela le complicazioni e il sold out repentino. “Io ho comprato i biglietti per me e per un  mio amico e la prima transazione è andata bene. Poco dopo volevo effettuarne un’altra ma non è stato possibile”. Tra la prima e la seconda operazione il sito non dava l’accesso. L’accordo tra il Comune e Bookingshow prevede di acquistare massimo due biglietti con il medesimo accesso.

Le istituzioni confermano: “Tutti paganti” 

Tutto in un batter d’occhio, altrimenti niente poltrona e sito in tilt. Come quando devi fare un’operazione su un sito istituzionale online nei giorni di scadenza dell’adempimento rischiando di stare anche la notte a cercare di capire se trovi spazio.
Su bookingshow.com era evidenziata la parte riservata, 84 posti tra sindaco, giunta, consiglieri comunali, tutti “paganti”. L’amministrazione prende le distanze da qualunque eventuale impiccio: “Se avessimo voluto navigare sott’acqua – replica Giuliani – non avremmo detto quello che abbiamo detto, cioè che non ci sarebbero stati posti gratis per nessuno tranne che per le autorità, (prefetto, questore ecc.). Paga anche il sindaco, insomma”.
Il dirigente al settore cultura Gloria Fazia rimanda all’Ufficio di gabinetto: “Loro se ne sono occupati”. Ecco di seguito l’annuncio ufficiale sull’evento che infiamma la città, la bacchetta di Muti, tanto importante da scatenare -come succede da vari anni a questa parte, meno gli ultimi otto di chiusura del Giordano – l’ira degli esclusi: “Saranno messi in prevendita domani (oggi, ndr) dal circuito Bookingshow i biglietti per il concerto dell’orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, diretta dal maestro Riccardo Muti che il 10 dicembre prossimo si esibirà al teatro comunale “Umberto Giordano” di Foggia in occasione della riconsegna alla città dello storico contenitore culturale. Per un contrattempo organizzativo, i tagliandi saranno disponibili online, sul sito www.bookingshow.com  e nelle rivendite collegate, a partire dalle ore 12 di domani (17 novembre) e non, come inizialmente previsto, a partire dalle ore 8. Sul sito saranno anche indicati i prezzi dei biglietti e l’importo della prevendita per ciascuna categoria di posti”.

I numeri e il maxischermo 

Mettiamo un po’ d’ordine nei numeri. Per 32 consiglieri, 9 assessori e sindaco con mogli sono volati 86 posti. Nel palco del primo cittadino restano quattro posti vuoti, tranne che per un arrivo improvviso di altro rappresentante istituzionale. Per comandante dei carabinieri, della Finanza e questore (gli unici non paganti) altri 6 posti, sempre con accompagnamento. Riccardo Muti ha chiesto nel contratto che 20 poltrone fossero riservate a lui e al suo seguito di parenti ed amici. Invitati, ma paganti, il Presidente del Tribunale di Foggia,  il Procuratore capo, il Presidente della Camera di Commercio. Su quasi 500 posti 162 sono stati riservati alle istituzioni. Biglietti venduti anche fuori città, si registrano acquisti da Benevento e Pescara su un migliaio di punti vendita in tutta Italia. Gente in fila da stamattina alle 8 in alcuni bar della città. Al maestro Muti è stato chiesto un ritorno in città ma la sua agenda di appuntamenti è fittissima. In preparazione un maxischermo fuori dal teatro per seguire il concerto. In un primo momento il direttore si era opposto, ora pare si sia convinto. Come si giocasse un mondiale.
All credits toPaola Lucino (Many thanks.)

lunedì 10 novembre 2014

Gesualdo da Venosa, Luca Marenzio, Luzzasco Luzzaschi: la raffinatezza del contrappunto profano in Italia

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Con Carlo Gesualdo, principe di Venosa (c.1561-1613), abbiamo un esempio della migliore produzione polifonica profana. Nel XVI secolo l’asse della cultura musicale tende a spostarsi progressivamente dalle Fiandre all’Italia, grazie alla vivacità del clima culturale favorito dal mecenatismo di corti come quella dei Medici a Firenze, dei Gonzaga a Mantova, degli Estensi a Ferrara, degli Sforza a Milano. I musicisti fiamminghi attirati, già dalla fine del Quattrocento, nella penisola divulgano le conquiste tecniche e il gusto della polifonia nordica: transitano in Italia musicisti di grande valore come Josquin Desprez, Alexander Agricola, Heinrich Isaah. Nei primi decenni del secolo XVI, i fiamminghi debbono scontrarsi comunque con una certa diffidenza della cultura umanistica italiana e con le difficoltà dei testi in italiano. Solo dopo il primo quarto di secolo la polifonia profana in lingua italiana, grazie anche alla diffusione della poesia petrarchesca, comincia a maturare e a prendere vigore.
In questo clima nasce il nuovo madrigale, che è un tipo di composizione ben diversa dal madrigale del Trecento: è una composizione polifonica, prima a 4 e poi soprattutto a 5 voci, su testi poetici relativamente brevi, che vengono musicati completamente, dall’inizio alla fine, senza ripetizioni, senza riprese o ritornelli. In queste composizioni cinquecentesche è sempre molto forte l’attenzione per il testo: la musica cerca di seguirlo con grande fedeltà, per evidenziarne ed esaltarne il significato.
Il successo del genere portò alla formazione di società e accademie i cui membri si ritrovavano per il piacere di delle esecuzioni di madrigali, che richiedevano ambienti raccolti, riservati, per poter godere a pieno della complessità della costruzione musicale e dell’aderenza estrema della musica al testo. La diffusione del genere madrigalistico è testimoniata anche dalle numerose edizioni a stampa.
Intorno alla metà del XVI secolo la struttura del madrigale tende a diventare sempre più complessa, con tecniche contrappuntistiche sempre più raffinate, e si diffonde l’uso dell’illustrare i significati delle parole musicate con espressioni musicali imitative (frasi spezzate quando si parla di pianto sfrenato, di singhiozzo, per esempio). Questa pratica è tanto legata al madrigale che è stata denominata proprio madrigalismo.
Nell’ultima parte del secolo, il madrigale si avvicina progressivamente ad altri generi musicali, di carattere più popolaresco, o spirituale (in particolare là dove è più forte lo spirito della controriforma dopo il concilio di Trento). Così per esempio, Alessandro Strigio, bolognese, spinge il madrigale in direzione descrittiva e realistica, e da lì nasce il madrigale dialogico o drammatico, che a sua volta darà vita alla commedia madrigalesca: la polifonia fiamminga, colta e complessa, è sempre più lontana e ci si avvicina a forme di teatro d’ispirazione popolare. Proprio negli ultimi anni del XVI secolo, l’Amfiparnaso di Orazio Vecchi e La Pazzia senile di Adriano Banchieri sono esempi della nuova direzione.
L’ultima produzione madrigalistica in senso stretto ha i suoi punti più alti in due grandi compositori italiani, Luca Marenzio (c. 1553 – 1599), tanto abile da meritarsi il soprannome di “dolce cigno”, e Carlo Gesualdo. Entrambi esperti in tutte le tecniche polifoniche, introducono spesso dissonanze e cromatismi (alterazioni della scala fondamentale del brano), grande variabilità nel ritmo; Marenzio ama anche gli effetti teatrali (come la suddivisione fra più cori, che dialogano fra loro).
Gesualdo è un personaggio da romanzo d’avventura: fuggito da Napoli dopo aver ucciso la moglie e il suo amante Fabrizio Carafa, finisce nel 1594 per sposare in seconde nozze Eleonora d’Este, nipote di Alfonso II, duca di Ferrara. Nella città degli Estensi trova un clima culturale propizio, per la presenza di musicisti raffinati come Alfonso Fontanelli e, soprattutto Luzzasco Luzzaschi, che Gesualdo ammira molto. Gesualdo pubblicò in tutto sei libri di madrigali: i primi due prima di lasciare Napoli per Ferrara; il terzo e il quarto rispettivamente nel 1595 e 1596, quindi poco dopo il trasferimento alla corte estense. il quinto e il sesto, dopo un lungo intervallo, nel 1611. I sei libri, insieme, furono poi ristampati nel 1613, testimonianza dell’apprezzamento di cui l’autore ebbe immediatamente a godere presso i contemporanei. I madrigali di Gesualdo, a partire dal terzo libro, hanno parecchie affinità con quelle di Luzzaschi, il che indica che il modo ardito di comporre non era una caratteristica esclusiva di Gesualdo, ma non sminuisce per questo l’originalità della sua produzione, nella massima parte a 5 voci, in cui l’attenzione per la parola, per il significato, il valore declamatorio ed espressivo sono spinti al massimo, con un gusto vicino a quello teatrale.
Pur di ottenere gli effetti desiderati, per mettere in risalto i testi e la musica (in genere testi molto brevi, di argomento amoroso, non particolarmente pregevoli sul piano strettamente poetico) non esita a impiegare dissonanze, armonie inconsuete e poco prevedibili, improvvisi cambiamenti ritmici: si sente in questi lavori un gusto che è già molto vicino al Barocco.

"Luci serene e chiare" (C.G. da Venosa)
"Veggo, dolce mio bene" (Luca Marenzio)


"O primavera" (Musica di Luzzasco Luzzaschi)


domenica 2 novembre 2014

Ars Nova Musicae: ecco la «primavera» musicale del Trecento

Landini
Nel 1320 Philippe De Vitry, ecclesiastico, musicista e teorico, intitola Ars Nova Musicae (ovvero “La nuova tecnica della musica) un suo trattato destinato ad avere grande influenza nei decenni successivi. Ars Nova era contrapposto con decisione ad Ars Antiqua (cioè “La tecnica antica“) e rappresentava quindi la consapevolezza di una trasformazione di grande impatto: quella dalla monodia e dalle prime, semplici forme di polifonia (musica a più voci) alla polifonia matura, resa possibile dalla nuova notazione musicale, che si andava diffondendo in Francia. La denominazione di De Vitry è rimasta: indichiamo come Ars Nova all’incirca il periodo che va dal 1320 alla fine del secolo, con la Francia e poi l’Italia come centri principali, caratterizzato da musica non solo sacra, ma anche profana, polifonica. Nel campo sacro si andò affermando una nuova forma musicale, il mottetto, composizione polifonica in cui una voce eseguiva la melodia di un canto gregoriano, mentre una o due altre ricamavano intorno ad essa una sorta di commento con melodie originali, spesso anche testi diversi. L’Ars Nova sviluppò anche la Messa Polifonica, anche se come insieme di brani non collegati fra di loro.
La maggior parte delle informazioni che abbiamo sulla musica medievale riguardano lamusica sacra, al punto che si potrebbe pensare che questa fosse l’unica musica eseguita in tutti quei secoli; ma naturalmente non è così: semplicemente, i documenti scritti provengono dai pochi che sapevano scrivere e avevano qualche motivo per farlo, e che in gran parte appartenevano agli ordini religiosi. La Chiesa, peraltro, aveva sempre combattuto aspramente le forme musicali di puro intrattenimento (in origine, forse, l’avversione era legata al ricordo di come quelle musiche costituissero la colonna sonora dei giochi circensi romani, in cui i primi cristiani erano dati in pasto alle belve), il che spiega ulteriormente l’assenza di annotazioni in proposito. Ma la musica profana è sicuramente esistita per tutto il medioevo e, a differenza di quella sacra, doveva utilizzare anche gli strumenti, non solo le voci.
La musica profana riemerge quasi d’improvviso (in un modo che continua a turbare i sonni degli storici, che non sono ancora riusciti a darne una spiegazione convincente) dopo la metà dell’XI secolo, con i cosiddetti trovatori, poi con i trovieri, gli uni del Sud della Francia (lingua d’oc), i secondi del Nord (lingua d’oil, antenata del francese moderno). Sono al contempo musicisti e poeti, cantano d’amore, di corteggiamento, di imprese eroiche: è l’epoca della cavalleria.
Dell’epoca più antica della musica trovadorica ci sono rimasti soprattutto testi poetici, ma con il passare del tempo diventano sempre più frequenti anche le parti musicali, monodiche come il canto gregoriano, ma molto più vivaci ritmicamente.
La tradizione dei trovatori si snoda per circa due secoli: dalla seconda metà dell’XI secolo (è attivo fra il 1086 e il 1127 Guglielmo IX d’Aquitania, il primo trovatore di cui si abbia notizia) alla seconda  metà del XIII secolo; una tradizione analoga si sviluppa anche in Germania, con un po’ di ritardo, per proseguire nel Trecento: è quella del Minnesang (letteralmente “canto d’amore“).
L’Ars Nova italiana è più caratterizzata da forme profane, con brani poetici musicati in stile polifonicoi testi dei grandi poeti italiani del secolo, Petrarca, Boccaccio, Sacchetti, erano spesso già pensati per essere musicati. Qui le forme principali sono il madrigale, a due o tre voci, a volte sostituite da strumenti, di argomento amoroso; la caccia, a due o tre voci, ritmicamente molto animata, in cui i soggetti sono scene di movimento (di caccia, come suggerisce il nome, in primo luogo, ma anche di festa, di mercato), e la ballata, il cui nome tradisce l’origine della musica per ballare, a due o tre voci (una vocale, le altre vocali o strumentali), che sostituì progressivamente il madrigale.
Alla corrente musicale profana fiorentina del Trecento è ascrivibile il nome di Francesco Landini, poeta e musicista cieco dalla nascita, suonatore di liuto, flauto ed organo (tanto da meritarsi il nome di “cieco degli organi”), nato intorno al 1325. Tra i suoi brani più eseguiti troviamo: la ballata “Ecco la primavera”, il madrigale “De! Dimmi tu”, e alcuni saltarelli ed estampie, forme da ballo risalenti all’epoca dei trovatori.
Ascolti vivamente consigliati. (Ecco la primavera, De! Dimmi tu, Questa fanciull’Amor, Giunta vaga biltà- F.Landini)




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sabato 18 ottobre 2014

Il «Giovane Favoloso»: la sensibilità postmoderna che ha collocato Leopardi fuori dal suo tempo

ilgiovanefavoloso
Il 16 ottobre 2014 è certamente una data che ha segnato le sale cinematografiche italiane con l’uscita del film storico-biografico “Il giovane favoloso”, incentrato sul racconto, attraverso focus dettagliati, della vita del poeta recanatese. È indubbiamente un film straordinario (e che tutti dovrebbero vedere) capace di sdoganare il luogo comune del «pessimismo cosmico leopardiano», diffuso in larga parte dalle interpretazioni errate di alcune antologie letterarie, e da credenze popolari e scolastiche.
Grazie alla brillante regia di Mario Martone, e alla magistrale interpretazione del protagonista, Elio Germano, il pensiero del poeta dell’Infinito diventa una sensibiletrasmutazione della realtà postmoderna ottocentesca: l’uomo, dapprima legato allanatura di una realtà illusoria, con il progresso della civiltà si è allontanato da questa condizione, sostituendo la natura con la ragione; e dunque dal ragionamento deriverebbe l’infelicità, e da questo status d’insoddisfazione perenne, come in un circolo vizioso, si tenderebbe nuovamente all’illusione, per andare incontro a una realtà diversa, felicementeincondizionata, ormai materialmente irraggiungibile.
Il Giovane Favoloso inizia con la visione di tre bambini che giocano dietro una siepe, nel giardino di una casa austera. Sono i fratelli Leopardi, e la siepe è una di quelle oltre le quali Giacomo cercherà di gettare lo sguardo, trattenuto nel suo anelito di vita e di poesia da un padre severo e convinto che il destino dei figli fosse quello di dedicarsi allo “studio matto e disperatissimo” nella biblioteca di famiglia, senza mai confrontarsi con il mondo esterno.
Mario Martone comincia a raccontare il “suo” Leopardi proprio dalla giovinezza a Recanati, seguendo Giacomo nella ricerca costantemente osteggiata da Monaldo e da una madre bigotta e anaffettiva delineata in poche pennellate, lasciandoci intuire che sia stata altrettanto, e forse più, castrante del padre: sarà lei, più avanti, a prestare il volto a quella Natura ostile cui il poeta si rivolgerà per tutta la vita con profondo rancore e con la disperazione del figlio eternamente abbandonato.
La prima ora de Il giovane favoloso, dedicata interamente a Recanati, è chiaramente reminescente dell’Amadeus di Milos Forman, così come il rapporto fra Giacomo e Monaldo rimanda a quello fra Mozart e suo padre. Ma non c’è margine per lo sberleffo nell’adolescenza di Leopardi, incastonato nei corridoi della casa paterna e in quella libreria contemporaneamente accessibile e proibita. In queste prime scene prende il via il contrappunto musicale che è uno degli elementi più interessanti della narrazione filmica de Il giovane favoloso, e che accosta Rossini alla musica elettronica del tedesco Sasha Ring (alias Apparat)e al brano Outer del canadese Doug Van Nort.
Attraverso un salto temporale, ritroviamo Leopardi a Firenze, dove avvengono gli incontri con l’amata Fanny e con l’amico Antonio Ranieri, entrambi fondamentali nel costruire la geografia emotiva del poeta. È del periodo fiorentino anche il confronto con la società intellettuale dell’epoca, che invece di cogliere la capacità visionaria di Leopardi in termini di grandezza artistica ne intuiscono la pericolosità in termini “politici”, in quanto potenziale sabotatrice di quelle “magnifiche sorti e progressive” che il secolo cominciava a decantare.
L’atto conclusivo, dopo una breve sosta a Roma, si svolge a Napoli, città per cui Martone prova un trasporto emotivo evidente nel rinnovato vigore delle immagini (ma il segmento potrebbe estendersi meno a lungo, nell’economia della narrazione). Alle pendici del Vesuvio si concluderà la parentesi di vita di Leopardi, strappandogli l’ultimo grido di disperazione con la poesia La ginestra, summa del suo pensiero esistenziale.
Martone racconta un Leopardi vulnerabile e struggente, dalla salute cagionevole e l’animo fragile, ma dalla grande lucidità intellettuale e l’infinita ironia. Elio Germano “triangola” brillantemente con le sensibilità di Leopardi e di Martone, prestando voce e corpo, sul quale si calcifica l’avventura umana e intellettuale del poeta, alla creazione di un personaggio che abbandona la dimensione letteraria, e la valenza di icona della cultura nazionale, per abbracciare a tutto tondo quella umana. La riscoperta dell’ironia leopardiana, intuibile nei suoi poemi, ben visibile nei suoi carteggi, è una potente chiave di rilettura moderna del poeta. “La mia patria è l’Italia, la sua lingua e letteratura”, dice il giovane Giacomo. E Martone ci ricorda che nella lingua e letteratura di Leopardi si ritrovano le radici dell’Italia di oggi.
In questo modo Leopardi esce dai sussidiari ed entra nella contemporaneità, continuando quella missione divulgativa che il regista napoletano ha cominciato ad intraprendere con Noi credevamo. Martone fa parlare i suoi protagonisti in un italiano oggi obsoleto ma filologicamente rigoroso, e fa recitare in toto a Leopardi le sue poesie più memorabili, strappandole alle pareti scolastiche e ai polverosi programmi liceali. Germano interpreta quei versi senza declamarli, reintegrandoli nel contesto umano e storico in cui stati concepiti, e restituendo loro l’emozione della scoperta, per il poeta nel momento in cui le ha scritte, e per noi nel momento in cui le (ri)ascoltiamo. Nelle sue parole torna, straziante, la malinconia “che ci lima e ci divora”, nei suoi dilemmi esistenziali ritroviamo i nostri.
Martone recupera anche la dimensione affettiva di Leopardi, raccontandolo con immensa tenerezza, e senza mai indulgere nella pietà per i tormenti fisici del poeta, che orgogliosamente rivendica la propria autonomia di pensiero intimando: “Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto”. E ne sottolinea la valenza politica, facendo dire al poeta: “Il mio cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici”. Infine identifica nel poeta un precursore del Novecento nel collocare il dubbio al centro della conoscenza: “Chi dubita sa, e sa più che si possa”. Quel che emerge sopra a tutto è una profonda affinità elettiva fra Martone e Leopardi, un allineamento di anime e di sensibilità artistiche: attraverso il poeta, il regista racconta quella condizione umana “non migliorabile”, a lui ben nota e non “sempre cara”, di sentirsi straniero ovunque e in ogni tempo. Il Leopardi di Martone si ricollega idealmente al Renato Caccioppoli di Morte di un matematico napoletano in quell’impossibilità per alcuni di essere nel mondo, oltre che del mondo.
Il giovane favoloso è un film erudito sulla sensibilità postmoderna che ha collocato Leopardi fuori del suo tempo, origine della sua immortalità e causa della sua umana dannazione. Martone costruisce una grammatica filmica fatta di scansioni teatrali, citazioni letterarie e immagini evocative ai limiti del delirio, come sanno esserlo le parole della poesia leopardiana. All’interno di una costruzione classica si permette intuizioni d’autore, come l’urlo silenzioso di Giacomo davanti alle intimidazioni del padre e dello zio, o le visioni del poeta nella parte finale della vita. Il giovane favoloso “centra” in pieno la parabola di un artista che sapeva guardare oltre il confine “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. E ci invita a riconoscerci nel suo desiderio di infinito.


Fonte: MyMovies.it : Paola Casella / Intro: Francesca Papagni
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