domenica 28 settembre 2014

Fryderyk Chopin e la contrastante novità della Sonata n. 2 in si bemolle minore op. 35

La Sonata per pianoforte numero 2 Op. 35 in Si bemolle minore fu composta da Fryderyk Chopin intorno al 1839 a seguito di un’idea musicale che egli aveva concepito ben due anni prima, all’epoca del soggiorno a Nohant nel castello dell’allora compagna George Sand; l’idea consisteva in ciò che poi sarebbe divenuto il terzo movimento della Sonata stessa, meglio conosciuto come Marcia Funebre.
La Sonata si compone di quattro movimenti:
  1. Grave – Doppio movimento
  2. Scherzo
  3. Lento: “Marcia funebre”, appellativo che gli è stato affidato per via delle sonorità tipiche di questo andamento.
  4. Finale – Presto
Come suggerito dagli stessi andamenti, la Sonata n. 2 Op. 35 è piuttosto contraddittoria: il susseguirsi dei quattro movimenti è a dir poco brusco ed irregolare, motivo per cui la critica musicale su questa composizione si è spesso divisa.
Una sorta di «poema della morte», simile ad un canto solitario, domina la partitura, soprattutto se pensiamo a come l’intera Sonata si coaguli attorno al suo centro ideale, la Marcia funebre. Certo la linea di fondo da cui si sviluppa l’intera Sonata lascia trasparire un tratto nichilistico, una sorta di concezione drammatica del destino umano. Questo spiegherebbe l’accentuata insistenza sulle tonalità minori che caratterizzano fortemente, con le loro tinte scure, tutti i movimenti. I profili tematici sono aspri e improvvisi, come succede nel Grave – Doppio movimento; oppure si traducono in funesti e cadenzati rintocchi di morte della Marcia, sferrati dal basso ostinato della mano sinistra, o si trasformano in linee melodiche intimistiche e sognanti (ascoltabili nella parte centrale della Marcia Funebre), o ancora sfilano via veloci senza un andamento chiaro, quasi come fossero fantasmi senza volto come si nota nel Presto finale, che in epoca romantica venne fantasiosamente visto come «il vento che soffia tra le tombe».
– Nel primo movimento, Grave – Doppio movimento, dopo i criptici accordi introduttivi dell’Esposizione, scorgiamo un angoscioso primo tema che, al contrario della norma, non tornerà nella Ripresa, per lasciare posto al morbido profilo del secondo tema (in Re bemolle maggiore) dal carattere sereno e trasognato; già nello sviluppo Chopin aveva sfruttato in toto le potenzialità del primo elemento che, ripetuto, sarebbe risultato pleonastico. Questa violazione delle regole compositive scandalizzò non poco musicisti e critici contemporanei, primo fra tutti Robert Schumann (che ne sottolineò però, in una famosa recensione, la genialità e la novità).
– Il secondo movimento, Scherzo, è dominato da forti contrasti: dall’esecuzione brusca del primo gruppo si passa al composito insieme del secondo, laddove prende avvio un’immaginaria e raggelante danza degli scheletri, che in poco tempo invade l’intera scena; poi, inaspettata, si apre la magnifica quiete del Trio nella sua bella melodia dalle ampie campate che ricorda un placido, ispirato Notturno, prima del martellante ritorno allo Scherzo iniziale.
– Il terzo movimento, Marcia Funebre, è caratterizzato da rintocchi del motivo principale i quali si stagliano tetri e immobili, sostenuti dalla lenta e ossessiva figura in ostinato della mano sinistra. Poi questo grigio canto di morte concede una tregua e si apre in un vivido messaggio di speranza emblematicamente spento nel finale dal cupo rullio del basso. Nella seconda parte della Marcia compare una melodia cantabile tipicamente chopiniana: tenera, ma triste e dolente, che pervade l’animo per il suo messaggio di calma rassegnata; solo alla fine torna a stagliarsi, implacabile, l’ombra ritmico-motivica costituita dal tema portante della Marcia funebre.
– Il Presto conclusivo è la fine di ogni illusione, «una sfinge dall’ironico sorriso» (cit. Robert Schumann)Nessun tema, accento o indicazione dinamica figura nella partitura, fatta eccezione per il fragore del fortissimo finale, cosa decisamente “sui generis” per Chopin, così attento alle raffinatezze di tocco e agli spunti spunti melodici; una serie di impetuose terzine che si muovono tutte uguali a sé stesse a distanza d’ottava, sempre sottovoce e legate, forma un circuito sonoro freddo, indistinto. È la sconvolgente rappresentazione musicale del senso del nulla, del gelo spirituale che porta alla morte: ancora una volta, scardinando le regole, il brano, accorciato, diviene un drastico epigramma.
Schumann rimase sconvolto, ma anche ammirato, di fronte a tanta arte: «Quello che appare nell’ultimo tempo sotto il nome di Finale è simile a un’ironia piuttosto che a una musica qualsiasi. Eppure, bisogna confessarlo, anche da questo luogo senza melodia e senza gioia soffia uno strano, orribile spirito che annienterebbe con un pesantissimo pugno qualunque cosa, volesse ribellarsi a lui, cosicché ascoltiamo come affascinati senza protestare sino alla fine – ma anche, però senza, lodare: poiché questa non è musica».

Leggilo anche su Ventonuovo.eu

lunedì 8 settembre 2014

"Vite parallele" (Que vais-je devenir sans toi?) - Storia di un racconto personale...

Buon pomeriggio, cari lettori.
Quest'oggi voglio presentarvi un mio lavoro personale. Sarò breve, leggerete subito una piccola introduzione, e dopo di essa potrete scaricare in formato PDF l'elaborato (disponibile sul web per un periodo).

In copertina: "Acedia", Edvard Munch

Vite parallele” (Que vais-je devenir sans toi?) è il racconto da me scritto per partecipare al concorso di scrittura per autori emergenti Baol vol.5, avente come tema “la cattiva strada – tra cattivi maestri e cattive compagnie”. È stato scritto di getto il giorno prima della scadenza, e consegnato esattamente un'ora prima che il contest chiudesse; “giocarsi il tutto per tutto” è stato infatti il motto che mi ha accompagnato durante la stesura, ma è anche la frase su cui ho costruito lo schema della narrazione, “giocarsi il tutto per tutto” - prima che l'infelicità si prenda gioco di te.
- La “cattiva strada” che il protagonista deve percorrere prima di arrivare a «quell'attimo eterno di beatitudine» (come lo definirebbe Dostoevskij) è stata resa con una serie di parallelismi, francesismi, flashback, artifici retorici, alternanze di buio e luce; ed è delineata da questo concetto, “giocarsi il tutto per tutto” pur di uscire dal vortice bilioso del male di vivere, pur di cercare di raddrizzare quella realtà deformata che una cattiva compagnia ci ha imposto. È un impulso ragionato questo, che può scaturire solo da una profonda e introspettiva conoscenza di sé stessi. È una vetta piuttosto difficile da raggiungere, e nel racconto, il protagonista, attraverso un dialogo sincero con il suo migliore amico riesce faticosamente a conquistare. Nel percorrere la sua “cattiva strada” il protagonista, Sebastien, uomo retto e onesto, incontrerà l'amore nella figura antagonista di Paulette, ma non quello puro e incodizionato, bensì l'opposto: l'amore non corrisposto, rovinoso e drastico, che porta pian piano all'autodistruzione, e da qui il titolo “Vite parallele”. La vita del protagonista resterà, geometricamente parlando, sempre parallela (nel senso di destini che non si uniranno mai) rispetto a quell'amore oscuro. Soltanto per un breve periodo, con un immaginario colpo di scena, la definizione geometrica verrà annullata, per dar vita all'incontro tra bene e male, e le due esistenze diventeranno come due rette incidentali, ma ciò non durerà a lungo. Il susseguirsi di eventi negativi nella vita del protagonista, e le continue avvisaglie dell'amico Antoine, che gioca il ruolo di autocoscienza, porteranno Sebastien alla redenzione e alla tranquillità psicologica, e ad abbandonare per sempre quell'idea metaforica di vita incidentale con Paulette.
- La forza interiore del protagonista, che si rifà in minima parte ai moti interiori dello “Sturm und Drang” ottocentesco, sarà la chiave di volta del racconto, che si concluderà positivamente con il recupero, da parte del protagonista, della propria vita. E dunque, per tirar fuori il protagonista dalla cattiva strada, ho rielaborato in maniera personale il concetto filosofico di bene che prevale sul male, e per lo stile di scrittura artificiosa e introspettiva, mi sono ispirata (in modo altrettanto umile e personale, e nessuno me ne voglia) a una pietra miliare della letteratura russa: Dostoevskij.

La vita è una sola, tantovale custodirla nel migliore dei modi, e metterla in salvo da processi di autodistruzione, ostacoli e cattive compagnie. E proprio queste battaglie, secondo una mia convinzione, ci permetteranno un giorno di poter affermare di aver realmente vissuto per qualcosa.


Francesca Papagni
Clicca QUI per scaricare il racconto.
Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

lunedì 1 settembre 2014

Sergej Prokof’ev e la stagione sovietica del “disgelo” musicale

Con la Rivoluzione d’ottobre del 1917, la storia della musica dei paesi dell’Unione Sovietica prende una strada largamente indipendente da quella della musica occidentale. Non priva di legami con il resto del mondo per i primi tempi, si chiude poi su sé stessa dalla fine degli anni ’20, con l’affermarsi dell’estetica del realismo socialista, che bolla volta a volta come “formalismo” l’adesione alle nuove correnti, espressionistiche, atonali o variamente sperimentali e moderniste. Nel periodo staliniano il mancato rispetto di un indirizzo che voleva musica celebrativa e musica a programma (più facilmente adattabile a fungere da veicolo ideologico) portava a un isolamento culturale non facilmente sostenibile. Solo dopo la morte di Stalin, con il progressivo “disgelo” e la politica della coesistenza pacifica, l’espressione artistica, non solo in campo musicale, si apriva nuovamente a linguaggi più estesi, alla sperimentazione e agli scambi con il resto del mondo.
Due figure emergono nettamente in questo panorama: quella di Sergej Prokof’ev e quella diDimitrij Sostakovic. Anche se nel periodo più intollerante i due musicisti, più o meno convinti, non poterono che adeguarsi alle richieste ufficiali, sono rari i momenti in cui la loro grandezza non traspare comunque dalle composizioni, sia pure improntate a intenti celebrativi.
Prokof’ev, peraltro, nato in Ucraina nel 1891, che nel secondo decennio del secolo aveva già raggiunto buona fama come pianista, lasciò l’Unione Sovietica nel 1918 e vi fece ritorno solo una quindicina d’anni dopo, convinto dalle difficoltà incontrate in Occidente e dall’esito trionfale con cui fu accolta una sua tournée in patria, ma portò con sé un bagaglio notevole di conoscenze dell’evoluzione musicale contemporanea (Sostakovic al contrario non lasciò mai il paese se non per brevi visite ufficiali).
La Sesta Sinfonia, composta tra il 1946 e il 1947 ed eseguita per la prima volta a Mosca in quello stesso anno, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij, seguiva a breve distanza la Quinta, che aveva celebrato la conclusione del secondo conflitto mondiale ed era stata accolta con caloroso successo.
La Sesta sinfonia è, coerentemente, una commemorazione dei morti e una denuncia degli orrori della guerra. Il momento però non era propizio per questo tipo di riflessione, mentre la parola d’ordine era inneggiare alla vittoria del popolo russo e alla grandezza di Stalin, celebrare la gioia della ripresa dopo il conflitto; così la sinfonia fu accolta piuttosto male e Prokof’ev cercò di difenderla sostenendo che gli era stata ispirata dalla “forza spirituale” dell’uomo, la quale si è manifestata così vigorosamente in quell’epoca. In sua difesa si pronunciò Mjaskovskij, un altro musicista importante di quel periodo. Egli scrisse: «Ho cominciato a capire la sinfonia soltanto al terzo ascolto, e allora ne sono stato conquistato…sebbene ci fosse nell’orchestrazione qualcosa di indefinitamente oscuro e rude.»
Il primo movimento, “Allegro moderato”, alterna una serie di melodie tristi e di esplosioni sonore a un andamento musicale da marcia funebre, che fa pensare alla Quinta Sinfonia di Mahler; il secondo movimento, “Largo”, si apre con un angoscioso “scoppio” dell’orchestra e prosegue con una musica talvolta evocativa, altre lirica, a volte grottesca.  Completamente opposto è invece il carattere musicale del finale, “Vivace”: una sorta di rondò/sonata (temi A-B- Sviluppo-A-Coda). Di questo piacevolissimo brano, particolarmente interessante è la lunga sezione dello Sviluppo: dapprima il compositore gioca grottescamente con il primo tema A; elabora poi il secondo B, infine li pone entrambi l’uno sull’altro.
Listen to: Cinderella’s Waltz, from Suite n.1, for orchestra, by S.Prokof’ev

I Sei Valzer dell’opera 110, completata subito prima della Sesta Sinfonia, sono brani ricavatida altre opere: tre dal balletto Cenerentola, una delle opere più fortunate di Prokof’ev; due daGuerra e Pace, dramma lirico tratto dal romanzo di Tolstoj, a cui il compositore lavorò a lungo, ma che fu rappresentato per la prima volta solo dopo la sua morte; l’ultimo, infine, dallacolonna sonora di un film, Lermontov.
Ricerche e note bibliografiche: Virginio Sala.
Articolo online anche su www.ventonuovo.eu, per leggerlo clicca QUI.