domenica 29 giugno 2014

“Io”: il dandy-elettro-acoustic show di Francesco Sàrcina che scuote il Gargano ed elettrizza San Giovanni Rotondo

Piazza dei martiri, San Giovanni Rotondo, 25 giugno 2014Il ciclone Francesco Sàrcina (ex frontman del gruppo pop-rock “Le Vibrazioni”) si è abbattuto sulle pendici del colle sangiovannese provocando un vero e proprio sconquasso fra il pubblico, che in primis sembrava imbottigliato in una situazione di calma apparente, ma poi, si è lasciato trascinare dall’intensità delle onde sonore dell’elettro/acoustic show del pirata pugliese. Alla piena riuscita della serata hanno contribuito la travolgente simpatia del cantante-chitarrista, il quale ha ben pensato di sorseggiare un calice di vino rosso, pronunciando qualche divertente fraseggio in dialetto locale per allentare la tensione e per riscaldare la piazza, e indubbiamente la sua indiscussa dote musicale di polistrumentista. Grande prova di live show anche per i componenti della sua nuova band dal retrogusto elettronico, dalla quale è venuta fuori in punta di piedi ma con grande personalità soprattutto la bass girl Silvia Ottanà.
La scaletta è stata ben strutturata dal cantante, ed è stata volutamente divisa in tre parti (più ballad finale) simboleggianti la novità, che contraddistingue il suo nuovo progetto, dai toni elettro pop/rock, il ricordo dei tempi passati, rigorosamente eseguito in acustico (voce e chitarra), per celebrare alcuni dei più significativi successi ottenuti con il suo precedente gruppo “Le Vibrazioni”, e la fase di sperimental sound, caratterizzata nella ripresa da un’intro assolutamente elettromagnetico, e nel prosieguo da un mix di brani e cover pop, acoustic e funky. Il cantante ha dapprima sorpreso il pubblico improvvisando, con un moderno etherwave theremin transistorizzato, una linea melodica rock che a tratti poteva richiamare alla mente i fasti dei magnifici live set dei Pink Floyd, e poi lo ha letteralmente ipnotizzato con l’esecuzione, in stile flamenco (chitarra classica gipsy e voce) della canzone “Musa”, pezzo scritto qualche anno fa con la sua vecchia band; in questa performance Sàrcina ha dato piena dimostrazione delle sue capacità di chitarrista e di vocalist, impreziosendo il pezzo di suggestivi falsetti e di ornamenti vocali gregorian/punk alla Jeff Buckley.
Complici della riuscita sperimentale, ancora una volta si sono rivelati i componenti del gruppo, mai imprecisi e in perfetta sintonia con le idee del cantante.
Il pubblico si è mostrato letteralmente in delirio durante l’esecuzione dell’intramontabile e nostalgica hit “Vieni da me”, e si è lasciato coinvolgere nel live show, accompagnando con la voce il cantante nel ritornello. Sàrcina, visibilmente soddisfatto e commosso per il risvolto, ha poi umilmente chiesto un bis a cappella al pubblico, concessogli senza esitazione.
Apprezzatissime dalla piazza sono state canzoni come: “Dedicato a te”, famosissima pop hit del passato, “Nel tuo sorriso”, ballad sanremese pubblicata quest’anno assieme al nuovo disco “Io”, “In una notte d’estate”, tormentone estivo mai dimenticato, soprattutto per il suo ritmo caldorock/latino, “Ovunque andrò”, altra popolarissima ballad dai toni elegiaci, “Tutta la notte, recente successo dal trascinante ritmo funky e dal testo alquanto piccante,  “Giada e le mille esperienze”, new entry nella hit parade, scritta in terza persona, allegra e scanzonata, e la cover “Diavolo in me” di Zucchero Fornaciari, brano avente una favolosa linea di basso funky groove che lascia sempre il segno nell’orecchio dell’ascoltatore.
Il concerto si è poi concluso con la ballad “Pagine”, dal ritmo lento e cadenzato, e con un testo intenso.
Era da tempo che San Giovanni Rotondo non assisteva ad un concerto così bello e interessante. Francesco Sàrcina dunque si conferma, anche in qualità di solista, un validissimo artista del panorama rock della musica italiana: talentuoso cantante, musicista e autore, dal vivo è capace di dare una vera e propria scossa elettrica ad ogni tipo di pubblico, per le sue intuizioni musicali e per il suo stile dandy/rock.
Francesca Papagni

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sabato 28 giugno 2014

Frammento dissotterrato dalle "Memorie del sottosuolo" di F.Dostoevskij


Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelerà neppure agli amici, ma forse solo a sé stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono infine, di quelle che l'uomo ha paura di svelare perfino a sé stesso, e ogni uomo perbene accumula parecchie cose del genere.

Di che può parlare un uomo perbene con il maggior piacere? Risposta: di sé.
Certo, certo sarò un logorroico, un innocuo e fastidioso logorroico, come tutti noi. Ma che fare se la prima e unica destinazione dell'uomo intelligente è la chiacchiera, cioè il meditato travasamento di un vuoto in un vuoto più grande?
Non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia.  
Può forse un uomo cosciente avere il minimo rispetto di sé?
Tutti gli uomini immediati e d'azione sono attivi proprio perché ottusi e limitati.
L'uomo, sempre e ovunque, chiunque fosse, ha amato agire così come voleva, e non come gli ordinavano la ragione e il tornaconto; infatti si può volere anche contro il proprio tornaconto.
L'uomo ha tanta passione per il sistema e la deduzione astratta, che è disposto ad alterare deliberatamente la verità, è disposto a non vedere e non sentire, pur di giustificare la propria logica.
La sofferenza, questa è l'unica causa della consapevolezza.
Credo che la migliore definizione che si possa dare dell'uomo sia questa: creatura bipede ed ingrata!
L'uomo ama costruire, e tracciare strade, è pacifico. Ma da che viene che ami appassionatamente anche la distruzione e il caos?  
Il volere umano, molto spesso e anzi il più delle volte si trova assolutamente e cocciutamente in contrasto con il raziocinio.  
La civiltà ha reso l'uomo, se non più sanguinario, in ogni caso più ignobilmente sanguinario di quanto fosse un tempo.
Vivere oltre i quarant'anni è di cattivo gusto.  
Credo che la migliore definizione che si possa dare dell'uomo sia questa: creatura bipede ed ingrata!


Tratto da "Il sottosuolo" (Memorie dal sottosuoloF.Dostoevskij)

sabato 21 giugno 2014

Debussy: l'indisciplinato Impressionista musicale di fine Ottocento


Claude Achille Debussy nacque il 22 agosto 1822 a Saint-Germain-en-Laye, in Francia. Pianista e compositore, è considerato uno dei massimi esponenti dell'«Impressionismo musicale». Sebbene tale titolo lo insignì di numerose innovazioni, egli non lo apprezzò mai particolarmente: preferiva infatti essere definito un "simbolista", per via delle sue frequentazioni artistiche.
Figlio di modesti commercianti, nel 1867 si trasferì con la famiglia a Parigi. Durante la sua infanzia non si occupò affatto di musica, ma all'età di nove anni, mentre soggiornava presso la casa di una zia materna, decise di prendere lezioni di pianoforte da un vecchio maestro piemontese di nome Cerruti. L'anno seguente venne ammesso al conservatorio di musica della città, e a undici anni entrò a far parte della classe di solfeggio del temerario Levignac: qui nacquero i primi dissapori con il maestro per via delle limitazioni che la teoria del solfeggio stesso imponeva. Successivamente entrò nella classe di pianoforte del maestro Marmontel, ma ben presto (nel 1877, dopo nemmeno tre anni) si vide costretto a lasciarla per la sua indisciplinatezza. Raffinato e musicale interprete ed esecutore, nel 1884 vinse la prestigiosa borsa di studio “Prix de Rome” per la composizione “Enfant prodigue”, e per tre anni frequentò l'Accademia di Francia, a Roma.
Ma se non condusse a perfezione la sua tecnica, fu tuttavia, al pianoforte, uno charmeur.

"La sonorità delle sue esecuzioni era squisita; la sensibilità dell'interpretazione perfetta" (M. Emmanuel)


Durante il soggiorno italiano compose “La Damoiselle élue”, poema lirico di grande pathos e dolcezza. L'opera risentì fortemente dell'influenza del compositore tedesco Richard Wagner, ascoltato da Debussy nel 1888, in occasione del “Festival wagneriano” a Beyreuth, in Germania. 
Un’ altra influenza visibilmente rilevante nelle sue composizioni fu la musica modale di Mussorgky che gli offrì spunti per la creazione di nuovi sistemi armonici, per ritmi additivi non divisibili e per una drammaturgia diversa da quella di Wagner.

Rientrato a Parigi, nel 1892 Debussy cominciò a lavorare alla sua opera più celebre, il poema sinfonico “Prélude à l'après-midi d'un faune”. Ispirato all'omonimo poemetto in versi alessandrini “Il pomeriggio di un fauno” del poeta simbolista Stéphane Mallarmé, l'opera segnò l'affermazione di Debussy come compositore, e innaugurò la stagione dell'Impressionismo musicale, corrente che intendeva superare le costruzioni dell'armonia tradizionale in favore di una maggiore varietà ritmica e timbrica.


Con il suo Impressionismo Debussy colora le note di nuove sfumature, e conduce l'ascoltatore in un mondo di suggestioni al tempo stesso intense e rarefatte.”

Interessanti risultarono, inoltre, i tre “Nocturnes” per orchestra del 1899. Slegati da ogni regola accademica e ricchi d'atmosfera, i tre brani sono evocativi già a partire dai titoli: “Nuages”, “Fêtes” e “Sirènes”. 


Nel '900 Debussy continuò a comporre e a collaborare a balletti e lavori teatrali. Tra questi si distinse per importanza l'opera “Pélleas et Mélisande” tratta dal dramma simbolista-fatalista del 1892 dell'autore belga Maurice Maeterlinck, rappresentato, non senza difficoltà, il 30 aprile 1902, all'Opéra Comique, sotto la direzione di André Messager.

Altre composizioni debussiniane di fondamentale importanza innovativa furono: la "Suite Bergamasque" del 1891 (al cui interno è inscritto uno dei più significativi pezzi romantici "Clair de lune"), "Estampes" (1903), e "Children's Corner" (1908). Analizzandole, ancora oggi, è possibile riscontrare la vera novità, visibile nella partitura e ascoltabile nell'esecuzione del tempo musicale: non si punta più ad più un ritmo regolare e ordinato, bensì alla suggestione del "ritorno" del suono che un singolo accordo, indipendente dagli altri, produce.



Gli ultimi anni della vita di Debussy furono assai tristi; da lungo tempo colpito da un male inguaribile, vide durante il periodo della guerra farsi sempre più difficili le sue condizioni materiali. Morì a Parigi il 25 marzo 1918 a cinquantacinque anni. Quello che contraddistinse le sue composizioni fu la scelta di abbandonare i vincoli del linguaggio armonico per andare alla ricerca di una sintesi fortemente melodica. Il compositore parigino si servì della scala esatonale (basata su sei note a distanza di un tono, e non sulla tradizionale scala diatonica, formata da tono – tono – semitono – tono – tono – tono – semitono) per catapultare l'ascoltatore in un mondo astratto, simbolico e sfuggente. Queste innovazioni in campo armonico e stilistico rivoluzionarono il mondo della musica colta e aprirono la strada allo stile musicale moderno.



La musica di Debussy è senza possibilità di evoluzione, ed è rimasta imprigionata per sempre nelle seduzioni dei suoi paradisi artificiali.”

Francesca Papagni

i. Riferimenti bibliografici: François Lesure, Debussy. Gli anni del simbolismo, EDT, Torino 1994;  AA.VV., Dizionario delle Opere e dei Personaggi, Bompiani 2006

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sabato 14 giugno 2014

Puccini: la vita e l'anima musicale di un autore bohémien, tra innovazione e lacerazione


“ E che l'amore, alla fine, invada tutti sulla scena, in una perorazione orchestrale.”

Così si concludeva una delle ultime lettere, datata 16 Novembre 1924, del celebre compositore Giacomo Puccini, indirizzata al critico e librettista Giuseppe Adami.
Ed è certamente l'amore per la musica ad aver tracciato la partitura della sua vita, proprio come la corrente impetuosa di un tema musicale scalfisce la bianca roccia pentagrammata.
Nato nel 1858 da una famiglia di antiche tradizioni di musicisti tre anni prima che si realizzasse il sogno dell'Unità d'Italia, Puccini appare già segnato dalla suddetta arte: sembrerebbe essere destinato, come suo padre, alla direzione della Cappella del Duomo di Lucca. Ben presto però, dopo la visione dell'Aida di Giuseppe Verdi a Pisa, la vita gli pone dinanzi una decisione concreta: il giuramento di dedizione completa al teatro musicale e dell'opera.
Grazie al sostegno economico di sua madre, il giovane Puccini si trasferisce da Lucca a Milano, dove viene introdotto nell'ambiente musicale da Amilcare Ponchielli, allora autore già affermato de “La Gioconda”. Ma egli si meriterà ben presto il titolo di “successore di Giuseppe Verdi”, (e ciò verrà anche affermato in seguito dal suo editore Giulio Ricordi) non soltanto per la fama di “cantore di gentil animo femminile portatrice di grandi passioni”, ma soprattutto per il temperamento lirico, per l'atmosfera nuova della musica europea di quegli anni, durante i quali militavano già autori del calibro di Johann Strauss, Schoenberg, Debussy, Wagner.
Puccini si trova anche a vivere a cavallo di una nuova rivoluzione d'epoca: quella cinematografica (1895); ben presto questa nuova arte di rappresentazione della realtà attraverso immagini in movimento si potrà apprezzare a pieno nelle innovazioni melodico-orchestrali e timbriche dell'autore. Ma prima di comporre vi è un attento studio sulle tradizioni musicali dei vari ambienti delle sue opere: l'America de “La fanciulla del West” spicca per l'imitazione del banjo in riferimento al jazz; il tragico epilogo di “Tosca” viene reso attraverso l'inserimento delle “campane”; il Giappone della “Madama Butterfly” viene dipinto da una variegata sequenza di colori scenotecnici e orchestrali. Del resto, questa rivoluzione scenico-musicale pucciniana frutterà ulteriore fama all'autore, poiché verrà citata in oltre trecento film, a cominciare dalla prima pellicola sonora italiana “La canzone dell'amore” di Gennaro Righelli (1928).
In seguito, la vita del cantore di Mimì, Musetta, Tosca, Manon, verrà rievocata proprio grazie all'aiuto di filmati d'epoca che lui stesso faceva realizzare. Queste brevi e innovative pellicole illustravano le sue giornate passate al pianoforte nella villa di Torre del Lago.
Ed è proprio rifacendoci alla parole <rivoluzione> e <innovazione> che possiamo comprendere pian piano le mille sfaccettature di una personalità così apparentemente completa, ma allo stesso tempo torbida e lacerata, sempre alla ricerca di un mondo ideale. La figura di Puccini infatti si trova in contemporanea a quella letteratura di “fin de siècle” (1880-1910), contrassegnata da profonde contraddizioni psicologiche, la quale ha preso parte al corso della sua biografia. Per illustrare alcune di queste contraddizioni dell'<io>, basti pensare al rapporto dell'autore con le donne, in particolare a Elvira Bonturi, dalla quale ebbe due figli, Fosca e Renato.
Dopo la fuga d'amore e il matrimonio, si instaurò tra i due un rapporto ambivalente: da una parte la tradì ben presto, cercando relazioni con donne di diverso temperamento, dall'altra rimase legato a lei, nonostante le sue crisi violente e il suo carattere drammatico e possessivo. Secondo Giampaolo Rugarli, tutte le protagoniste delle opere pucciniane si riassumono e si rispecchiano sempre e solo nella moglie Elvira, che sarebbe stata l'unica figura femminile capace di dargli ispirazione, nonostante l'incomprensione che portava verso l'estro del compositore."Piccole anime per grandi passioni"
sarà una delle frasi emblema di Puccini, ovvero le storie di gente comune travolta da sentimenti, eventi, passioni eccezionali.

E per la serie “contraddizioni”, si rievochi il rapporto fecondo, se pur tormentato, di Puccini con i suoi librettisti (Illica e Giacosa) e il tentativo invece infruttuoso di collaborare con D’Annunzio (il quale cerca un teatro più sfarzoso ed intellettuale, mentre Puccini sente la poesia delle piccole cose); e ancora collegata alla lacerazione biografica compare la composizione dell'opera “La Bohème” (ispirata dal romanzo “Scènes de la vie de bohème” di Henry Murger): le musiche sono cariche di una sorta di eccitamento febbrile, mai tradotto in gioia, e sempre preludio di catastrofi. Il tempo melodico qui appare diluito in una sorta di languori, snervanti e lenti.
La contraddittoria biografia dell'autore si conclude nel post-prima Guerra mondiale – che Puccini odia e depreca (“Se non finisce la guerra, cosa ne farà il mondo della musica?” cit.), tempo in cui comporrà il “Trittico” (
“Il Tabarro”, “Suor Angelica”, “Gianni Schicchi”, di ispirazione dantesca e in stile viennese); ciò nonostante, gli sembrerà di non essere più in armonia con i tempi nuovi, poiché incapace di rinnovarsi nella sua musica. Opera ultima, rimasta incompiuta, è “Turandot”, considerata dalla critica uno dei suoi lavori più belli, di stampo esotico, e ispirata alla tragicommedia di Gozzi. La composizione verrà interrotta dalla malattia dell'autore: colpito da cancro alla gola, morirà successivamente in una clinica di Bruxelles, nel 1924. Il lavoro viene eseguito alla Scala il 25 aprile del 1926, sotto la direzione di Arturo Toscanini. Punto saliente dell'opera è il sacrificio del personaggio di Liù, ultimo grande carattere femminile pucciniano. Il direttore, arrivato a quel punto inviterà tutti, orchestra e pubblico, al alzarsi in piedi, dicendo: “Qui l’opera finisce per la morte dell’autore”. La grande innovazione pucciniana qui visibile è la mescolanza dell'elemento favolistico di Gozzi con l'aspetto tedesco schilleriano, che insieme declinano in chiave fiabesca la perenne lotta amorosa tra i sessi, argomento ostico per l'epoca dell'autore, che si rifletteva in maniera palese nella sua stessa biografia. E' così che la vita umana bohémienne e i suoi problemi vengono necessariamente traslitterati in musica e sulla carta, lasciando tracce indelebili nella storia, tra innovazione e lacerazione.

La musica? Cosa inutile. Non avendo libretto come faccio della musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena. Potessi essere un sinfonico puro, ingannerei il mio tempo e il mio pubblico. Ma io? Nacqui tanti anni fa, tanti, troppi, quasi un secolo... e il Dio santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: <Scrivi per il teatro: bada bene, solo per il teatro> e ho seguito il supremo consiglio. Contro tutto e contro tutti, fare opera di melodia!” - Giacomo Puccini 




Francesca Papagni
1Riferimenti bibliografici: F. D’Amico, L’albero del bene e del male. Naturalismo e Decadentismo in Puccini, Pacini Fazzi, Lucca, 2000

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