domenica 14 dicembre 2014

« La vita fugge, et non s’arresta una hora »

Tutto il Canzoniere, come altre espressioni dell’opera di Francesco Petrarca (Rerum vulgarium fragmenta), è scandito dall’ossessione della fuga del tempo terreno e della continua comparazione tra temporalità ed eternità. Potremmo dire anzi che l’idea stessa della composizione e dell’ordinamento dei Frammenti prenda avvio dal desiderio di lasciare un’opera capace di vincere l’azione distruttiva del tempo e di sopravvivere al silenzio della morte e dell’oblio, scelta già voluta per i suoi carmi dal poeta latino Orazio. Questo motivo, ricorrente nelle liriche composte tra il 1348 e il 1356, ritorna nel sonetto 272, una delle prime composizioni facenti parte della sezione del Canzoniere “in morte di madonna Laura”.
Petrarca reinterpreta dunque con grande originalità e in un’ottica cristiana il topos classico della fuga temporis, che trovava negli amati classici latini, specialmente nel De Brevitate Vitae di Seneca e nelle opere di Sant’Agostino. Il motivo della fugacità del tempo, proprio di varie liriche del Canzoniere, diventa qui lo spunto da cui prende avvio una riflessione sulla vanità di tutte le cose, riportandoci ai motivi del sonetto proemiale. In questa lirica però, più che in Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, il poeta dà voce alla sua delusione e alla sua sofferenza, e lo fa in una maniera piuttosto elegante e retorica, arricchendo il testo dipolisindeti, anafore, paratassi, allitterazioni, e immancabili metafore. La sua amarezza si avverte chiaramente nella riflessione sul presente e sul passato, che svolge con varieoscillazioni sull’uno o l’altro tempo, fino al v.10; qui, a metà della prima terzina, la riflessione si concentra sul futuro, che la morte di Laura ha privato di ogni prospettiva.
petrarcaa
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;            4
e ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sì che ‘n veritate,
se non ch’ì ò di me stesso pietate,
ì sarei già di questi penser’fòra.                        8
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ‘l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;              11
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.                14
Ascolti consigliati durante la lettura: Ildebrando Pizzetti “La vita fugge e non s’arresta un’ora” (rarità, da Novecento italiano)

Miserere Nostri - Thomas Tallis


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sabato 6 dicembre 2014

Tra didattica e tecnica: la maestrìa «severa e libera» di Muzio Clementi

Nato a Roma nel 1752, quindi poco prima di MozartMuzio Clementi è uno dei  musicisti a cui è più debitrice la letteratura pianistica, non solo per le sue opere musicali, quanto per l’attività instancabile di promotore del nuovo strumento (al punto da dedicarsi, da imprenditore, alla costruzione) e per quella di studioso della tecnica esecutiva e diinsegnante.
Da Roma Clementi si trasferisce in Inghilterra nel 1766, al seguito di Peter Beckford e nel 1773 è a Londra, dove inizia l’attività di maestro di cembalo al teatro di Haymarket e contemporaneamente di insegnante. Quando la sua fama di pianista comincia a crescere, affronta un viaggio nel continente, nel corso del quale ha occasione di misurarsi con Mozart, allora conosciuto soprattutto come pianista.
Ritornato a Londra, dove rimane per una ventina d’anni stabile, torna a dedicarsi completamente all’insegnamento, inaugura un’attività di editoria musicale associandosi con Collard, con il quale poi apre anche una fabbrica di pianoforti, negli ultimi anni del secolo. Nel 1802, approfittando della relativa tranquillità politica seguita alla Pace di Amiens (è il periodo delle guerre napoleoniche), ritorna sul continente e viaggia per la Germania, l’Austria, la Russia. Ritornerà a Londra nel 1810, dopo un’altra ondata di conflitti che ha insanguinato l’Europa; la sua fabbrica di pianoforti è andata distrutta in un incendio del 1807, e Clementi ripiega ancora una volta sull’insegnamento pianistico.
A scorrere l’elenco degli allievi di Clementi si trovano quasi tutti i più importanti nomi del pianismo ottocentesco: B.A.Bertini, J.Field, Ignaz Moscheles, Carl Czerny, Karl Cramer… sono fra i più significativi, e molti di loro, come il maestro, si dedicheranno alla didattica e al perfezionamento della tecnica pianistica. Sono, in effetti, quasi tutti nomi ben noti ai giovani pianisti che ancora oggi si formano in gran parte sugli esercizi e sui metodi didattici pubblicati da autori di questo calibro.
La parte principale dell’opera di Clementi è costituita dalla musica per pianoforte, per cui è rimasto giustamente famoso: anche se spesso hanno un carattere più che altro virtuosistico e tecnico, non sorretto da un’intensità espressiva pari a quella delle Sonate di Mozart (per non parlare di Beethoven), sono più che gradevoli da ascoltare, e non mancano comunque di sostanza. Nel tempo il nome di Clementi è rimasto legato soprattutto alle opere tecnico-didattiche: la raccolta Gradus ad Parnassum, o l’arte di suonare il pianoforte esemplificata in una serie di esercizi negli stili severo e libero (rif. al contrappunto), che costituisce ancor oggi banco di prova degli studi avanzati di pianoforte, unisce l’esercizio tecnico alla finezza compositiva.
Le Sonate di Clementi per pianoforte sono oltre 100 (comprese le sonatine e le sonate per due pianoforti), e coprono gran parte dell’arco della sua carriera di compositore, dal 1756 al 1821: vi si trovano lavori di diversa natura, data la classificazione molto libera di “sonata”, in uso all’epoca in Inghilterra, e a cui Clementi si adeguò.
Tra le sonate più famose menzioniamo: l’op.14 n.3, pubblicata nel 1784, l’op.26 (la preferita di Beethoven); le tre sonate dell‘op.33, del 1794, e infine le due sonate dell’op.34, assieme aidue capricci per pianoforte. Uno dei maggiori esecutori di Clementi, non a caso tra i più raffinati, è certamente Vladimir Horowitz.

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