di
Francesca Papagni
San
Giovanni Rotondo, 20 Giugno 2015: in occasione della Giornata
mondiale del rifugiato, questa è la data in cui il giovane
regista sangiovannese, Christian Palladino, presenterà
al pubblico locale la mise en scène di
“...Ma liberaci dal mare...”, spettacolo di teatro
sociale, avente come argomento cardine una tematica tanto spinosa
– per l'assenza di
opportune reti d'accoglienza –
quanto reale: l'immigrazione in Italia nell'era
post-moderna.
Una
problematica attuale: in un simile contesto calzerebbe a pennello
la dickensiana espressione «hard times, for these times»
(«tempi difficili, quelli nostri»), ma il nocciolo della
questione risiede in una certa incapacità governativa di
gestire un fenomeno sempre più dilagante, destinato a
sconfinare territorialmente ed eticamente: si pensi
alla strategica e proficua posizione “di mezzo” in cui è situato
il nostro Paese, e a quel gorgo di preconcetti che i rifugiati
in cerca di asilo, già sopravvissuti alle ingiurie dei propri
territori, e alle insidie dei mari in tempesta, sono costretti
ad affrontare e arginare quotidianamente.
Un teatro sensibile,
che ingloba razionalismo e sperimentalismo: il
cosiddetto “Teatro Sociale”,
nato sulla falsariga della pedagogia
di
Freire, dei teatri
del povero e dell'oppresso di
Grotowski e Boal,
e in seguito sbarcato in Italia grazie alle poliedriche personalità
di attori del calibro di Dario Fò, Marco Paolini, Ascanio Celestini,
è
vera
e propria traduzione
moderna
della parola creatività,
e racchiude in sé una vera e propria dimensione
sensibilista:
è infatti il risultato razionale dell'espressionismo
emozionale dell'individuo
il quale ne prende parte. Privo
di limitanti schemi tecnici e pragmatici,
caratteristici del “teatro
classico”,
il teatro
sociale
si edifica sull'esperienza di laboratorio
di gruppo. La parola laboratorio
si può collegare in maniera diretta ad un certo sperimentalismo;
il teatro
fisico e tradizionale,
costituito dunque da un palcoscenico, da una platea e da un pubblico
immobile si muta, per trasfigurarsi in contesti
sociali come
centri di accoglienza, istituti comprensivi, scuole, per il
coinvolgimento
creativo di
gruppi
di individui
che non incarnano propriamente la figura dell'attore
professionista.
Il ruolo dello
spett-attore: scardinato da una
drammaturgia lineare, costruttivismi ed esigenze di copione, il
teatro sociale
abbatte la barriera della “quarta parete”, e unisce
assieme,
in un binomio
itinerante, lo
spettatore e
l'attore (da
qui il termine “spett-attore”, ndr).
Entrambi sono parte integrante di una situazione concreta,
e sono chiamati a sentire – qui inteso come percepire
–
ed esplicare
quei meccanismi sottili della sfera
percettiva
scaturiti dall'impatto diretto con la realtà. Il tutto è
caratterizzato inoltre dall'assenza di una preventiva morale;
lo stesso regista
non vuole svelare nulla, ma intede creare una sorta di
confronto-collisione
tra
il binomio sovracitato, al fine di cancellare quel senso di apatia
e di non-partecipazione,
che talvolta caratterizza le tradizionali platee. Le uniche
citazioni che
ne deriveranno potranno essere, quindi, una libera
espressione dell'io
(inteso come invididuo
in una collettività)
in determinati
contesti,
e nel caso specifico odierno, proprio in quello dell'ondata
migratoria
in Italia.
“ Se
a teatro il testo non è tutto, se anche la luce è ugualmente un
linguaggio, questo vuol dire che il teatro custodisce la nozione di
un altro linguaggio, che utilizza il testo, la luce, il gesto, il
movimento, il rumore. È il Verbo, la prola segreta che nessuna
lingua può tradurre. È, in un certo qual modo, la lingua perduta
dopo la caduta di Babele. (da Antonin Artaud, Il teatro del
dopoguerra a Parigi, in Messaggi rivoluzionari, p. 99, a cura di
Marcello Gallucci, Vibo Valentia, Monteleone, 1994)”
Il ruolo della “verbvm” nel teatro e nella
comunicazione: con questa definizione quasi metafisica
della parola comunicatrice, che mira a sottolineare
l'importanza del verbo e dell'explicatio, suggerita
direttamente dal creatore-regista del progetto, Christian
Palladino, si esortara il pubblico a non rimanere
nell'immobilismo stagnante di quella calm-apparente che
si manifesta in vari momenti della propria esistenza, e a render-si
forza motrice animante della funzionalità comunicativa nella
società; attraverso la comunicazione si potrà giungere ad un
equilibrio quantomeno stabile tra comunicante e comunicatore,
e di conseguenza tra significante e significato,
ovviamente applicati alla sfera sociale. “...Ma liberaci dal
male...” dunque sarà uno spettacolo che tenterà di rispettare
la veridicità di tali concetti... nella più assoluta
semplicità ed efficacia dell'espressionismo comunicativo.