domenica 4 febbraio 2018

“ LU RÈ” - potere e miseria


di Francesca Papagni



La commedia portata in scena da Salvatore Sassano e dalla sua compagnia teatrale “Libera-Menti”, quest'anno si è fatta portatrice di nefasti ma allo stesso tempo realistici ed esplicativi messaggi, estrosamente espressi in una rilettura contemporanea, essenziale, sapiente, satirica e sagace del quotidiano dalle intuizioni registiche e sceno-tecniche. Volutamente minimalista, oscura e simmetrica la scenografia e i giochi di luce in essa inseriti, per sottolineare l'inarrivabilità del voler provare a mutare il corso e il decorso degli eventi in determinati contesti sociali. E non potevano che essere sperimentali e rock gli intermezzi musicali in sottofondo.

Il potere, interpretato secondo le intuizioni primarie di una clac politica al limite tra credibilità e stravaganza, illustrato dal vivo entusiasmo del decostruire per ri-cominciare, reso da salde alleanze e dall'ipotetica creazione di un partito deciso, risoluto, diretto al cuore delle masse costrette in seguito a subirne le stesse influenze tanto concrete quanto grottesche, diviene, nel primo atto l'argomento assoluto, quasi monarchico, fra argomentazioni abituali, ironiche arringhe ed eclatanti colpi di scena, egregiamente resi dalla recitazione, addirittura mordace e caricaturale degli attori in scena. Ben presto, a conti e tornaconti fatti, diviene tuttavia miseria per gli stessi seguaci, per il suo capostipite, o meglio, sindaco cialtrone, e per ogni tipo di sentimentalismo, al quale viene lasciato nel finale uno stringato, impacciato e incredulo fraseggio depositivo, a definizione di una dimensione governativa asettica e vuota, alla quale si viene passivamente condannati. La realtà dei fatti diviene un meccanismo dispotico atrocemente veloce negli ultimi passaggi di scena; non c'è tempo né spazio per alcun tipo di riflessione personale: la forza decisionale e democratica dei pochi consiglieri amici-nemici non lascia scampo a quello spiraglio di positività che tende al cambiamento.

Lo stesso potere, nel secondo atto celebrato dai fasti di un'azienda talmente perfetta da risultare irreale all'occhio umano, dallo sfarzo e dall'esagerazione del lusso aziendale diventa un vortice di messaggi pressanti e soffocanti, talmente veloci da creare attimi di panico e silenzi singhiozzanti sulla scena, generati da monologhi sfiniti e infiniti, quasi al limite del patetico, da una chiara linea di meccanismi machiavellici di chi è al di sopra del già di sopra, da forze innominabili e subdole, contro le quali ogni opposizione risulta economicamente destinata a fallire. Protagonisti assoluti della scena, in questa tranche, uniti ai vertici di una scenografia spigolosa, come in un triangolo isoscele dalle linee duramente definite, fra monologhi e frecciate a volte beffarde, a volte titubanti, un direttore decisamente troppo permissivo e vulnerabile, la sua azienda, quasi casa-famiglia, e i suoi più stretti collaboratori; l'atmosfera del fallimento di ogni potere e decisione economica è ben raffigurata dall'alternanza, in ogni dialogo, dai convincenti messaggi “promozionali” delle segretarie d'ufficio, e della sua stessa prole, i quali non si lasciano sfuggire un colpo per confondere nella maniera più totale e vigliacca lo stesso direttore. Ogni sentimento è ambivalente; ogni potere è destinato ancora una volta a divenire miseria in un crollo; l'amore qui equivale solo a promozione, si fa passaggio ad una carica superiore, talmente alta da esplodere per sfinire nel finale il suo promotore, il quale tracolla impotente sulla scrivania, agonizzante e soffocato da mille promesse e mille debiti mai saldati, fra chiamate assillanti e avvisaglie, tradito dai suoi stessi affetti, diventati ormai distruttori e divoratori della sua propria economia sentimentale.

Il terzo atto è in maniera conclusiva ciò che si può definire un'implosione della parola rivoluzione, resa scenicamente dalla sospensione a divinis di un parroco fin troppo sui generis, ambizioso e senza pregiudizi. La tranquillità di una comunità, in questo caso sagrestia, apparentemente passiva e oltrepassata a livello di vissuto, viene sconvolta dal suo arrivo e dalla sua permanenza, la quale si rivela col tempo innovativamente troppo irrequieta, sprezzante e veritiera per chi è abituato a celarsi sotto il velo sacro di un'intoccabile ipocrisia, cantata e suonata a modo da citazioni che si rifanno al cantautorato italiano e da esposizioni di rimorsi e autocoscienze, fantasticamente rese in scena dall'inserimento al lato della scenografia di due attori-burattini, in grado di sentenziare miseramente l'abitudinario corso degli eventi ai quali si assiste ogni giorno. E si scoprono dunque gli altarini del ruolo di ognuno di noi non solo in quella sagrestia, bensì nell'ordinario. Ogni frase pronunziata è come una lama nel petto, e non risparmia niente e nessuno. Nemmeno la sensibilità di una suora, di una coordinatrice canora vengono preservate, perché ritenute obsolete e false. Perfino il segreto della confessione dei sagrestani e un passaggio di carriera di un fedelissimo seguace ecclesiastico vengono senza alcuna pietà spiattellati dinanzi alle platee dalla lingua tagliente dell'impavido sacerdote; ma anche i suoi insoliti e straordinari progetti sono destinati nel finale alla deriva. L'abitudinario ancora una volta scavalca il rinnovamento e si stanzia immobile nella realtà come una calamita sul ferro. La scomunica è doppia nel finale: non solo quella del pastore condottiero dalla sua comunità, ma anche quella del cambiamento a fronte delle viste e riviste consuetudini.

E noi, pubblico di una vita già vissuta, siamo effettivamente pronti alla novità, o siamo destinati a subire ancora il trapasso, la passività di un finale già scritto in una comune e banale storiella?
Un quesito che lascia spettatori e attori immobili, con l'amaro in bocca, e riflessioni ancora acerbe per poter essere esplicate.

Tutto questo è “Lu Rè”, trattato di un'assurda perspicacia, capace di ribaltare la tranquillità di qualsiasi platea, al passo con chiari riferimenti alla letteratura moderna novecentesca e alle strutture politiche arcadiche. Tutto questo è il potere nella miseria, e la miseria stessa rivelatrice di un potere già definito da pochi, eletti, destinati a rimanere, forse immutabili, nel tempo.


Il potere non è un mezzo, è un fine.
Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; 
ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura.
Il fine della persecuzione è la persecuzione.
Il fine della tortura è la tortura.
Il fine del potere è il potere.
- George Orwell, 1984

Sentiti ringraziamenti a Salvatore Sassano, Matteo D'Apolito e Christian Palladino per la regia e i movimeni scenici, Salvatore Marchesani e Giuseppe D'Altilia per la scenografia e le luci, Luigi Pagliara per le musiche, e a tutto il resto dello staff della compagnia teatrale “Libera-Menti”.