lunedì 26 gennaio 2015

« Sei la terra e la morte ». La donna diviene stilema simbolista pavesiano.

Cesare Pavese rappresenta una delle più significative – e al contempo – atipiche della letteratura novecentesca. Già da ragazzo rivela un’indole timida e introversa, segno di un’acuta sofferenza psicologica che lo accompagnerà per tutta la vita, e lo spingerà fino al gesto estremo del suicidio. Nonostante l’imponente successo ottenuto in qualità di scrittore, su Pavese graverà sempre la percezione del fallimento esistenziale, acuito dalle delusioni nei rapporti sentimentali e da un umiliante senso di inettitudine all’impegno politico e civile.
Le raccolte poetiche. Pavese esordisce come poeta nel 1936, con la raccolta “Lavorare stanca“. L’opera occupa una posizione del tutto originale nel panorama della lirica contemporanea, dominata dall’Ermetismo. Essa propone infatti una concezione della poesia che sfoci in un racconto «chiaro e pacato», in grado di stabilire un rapporto dicomunicazione con il lettore. La cadenza narrativa è ottenuta attraverso strutture sintattiche distese e discorsive, e potenziata dall’uso innovativo di «versi lunghi», eccedenti la misura dell’endecasillabo. I temi caratterizzanti di queste poesie comprendono una serie di coppie simboliche, volte a rappresentare la contrapposizione tra una “dimensione serena e pacata” ed una “solitaria e angosciosa“.
Nelle raccolte del dopoguerra (“La terra e la morte”, e “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, 1946-1950) la poetica di Pavese evolve verso forme più brevi e significative, a cui è affidato il compito di esprimere liricamente le sofferenze dell’io e il dolore della passione amorosa.
Mito e «realtà simbolica» Elemento essenziale della produzione letteraria di Pavese è la riflessione sul mito, elemento centrale anche di alcuni saggi psicologici-teorici dell’epoca. Sulla scia di Jung, lo scrittore concepisce il mito come simbolo primordiale radicato nell’inconscio collettivo dell’umanità, come elemento universale, ma anche oscuro e misterioso. Compito dell’arte è rendere “chiara” tale materia informe, dandole una forma ordinata e razionale: di qui nasce il travaglio che accompagna la scrittura, intesa come “mestiere“. Pur basandosi su una realistica situazione storica e geografica, i personaggi, gli ambienti e le vicende dei romanzi pavesiani rinviano costantemente a una trama di elementi mitico-simbolici, tra i quali spiccano immagini legate all’infanzia e alla terra natale. (Rif. allecolline).
albero-radiattivo-a23433857Sei la terra e la morte” è l’ultimo componimento della breve serie intitolata “La terra e la morte“, pubblicata postuma con i versi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi“.
Il tessuto poetico si regge interamente su una trama simbolica, che rende stringente il gioco delle metafore: la terra e la morte sono opposte all’alba e all’acqua, in cui Pavese prospetta lanascita e l’amore; l’acqua ha perso ogni capacità vivificatrice; la donna si è trasformata in una pietra, diventando irraggiungibile, rendendo invalicabile la distanza rispetto all’alba, che genera nuova vita. La donna è dunque sul finale mistero e morte, morte che tutto annienta, che gelida calpesta ogni cosa. Gli stati d’animo del poeta sono completamente annichiliti. Così come la morte, la donna lascia intorno a sé solo desolazione e amara solitudine. Il linguaggio poetico è essenziale, delimitato dall’efficacia epigrafica del primo e dell’ultimo verso (settenari identici).
Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.

Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

* Questa volta voglio concludere l’articolo con un ascolto guidato diverso dal solito. Io stessa, in maniera molto umile e al contempo appassionata, mi sono cimentata nell’interpretazione della poesia. Certo però è che la qualità dell’audio non è delle migliori, così come il recitato; nonostante ciò ho provato ugualmente a mettermi in gioco. Buon ascolto, a quei valorosi che si prodigheranno a premere “play”. :-)
Articolo visibile anche su www.ventonuovo.eu, alla voce ARTE -> musica e letteratura

mercoledì 7 gennaio 2015

« Solo et pensoso i più deserti campi »

In questo celeberrimo sonetto, composto prima del 1337, Francesco Petrarca ritrae sé stesso alla ricerca di luoghi segreti dove fuggire per celare agli altri il suo amore per Laura (prima quartina), chiaramente riconoscibile nel suo aspetto afflitto, e salvarsi così dalla vergogna che gliene deriverebbe (seconda quartina). Nessuno dunque conosce il suo sentimento, ad eccezione del paesaggio che lo ospita (prima terzina), ma non c’è via tanto solitaria che lo preservi dall’affanno amoroso (seconda terzina). La solitudine del poeta, intesa come schermo dalle parole della gente, è dunque il tema centrale del sonetto, che, in risalto per posizione incipitaria, ritorna in ogni strofa.
Il critico Francesco De Sanctis dette una celebre lettura in chiave romantica di questa lirica, individuandovi una delle situazioni topiche della poesia petrarchesca: l’innamorato che dialoga malinconicamente con un paesaggio dai confini dilatati a dismisura per distendere e appianare le proprie ansie interiori. Il paesaggio diviene così un interlocutore complicato e silenzioso, a cui il poeta può rivelare segreti negati agli uomini, una sorta di “correlativo oggettivo”, che coi suoi luoghi ritrosi e inospitali riproduce e consola l’animo ferito dall’amore. Questa lettura di impostazione romantica (il sonetto fu molto amato daFoscolo Alfieri) prescindeva però dalla conoscenza delle fonti cui questa lirica si ispira e che oggi sono messe in luce dai commentatori giustamente attenti al problema dell’intertestualità letteraria. Petrarca, infatti, fa proprie le situazioni di Bellerofonte (l’eroe omerico che, inviso agli dei, cerca la solitudine e fugge ogni presenza umana), che egli non conosceva direttamente dalla fonte greca, ma soltanto attraverso la mediazione latina di Cicerone nelle Tusculanae Disputationes. Petrarca dunque, secondo un suo procedimento caratteristico, proietta su un mito classico la propria vicenda personale, come rivela anche la presenza del medesimo mito in altre sue opere, quali il Secretum, le Seniles e le Invectivae contra medicum quendam. Si aggiunga inoltre che i passi tardi et lenti non sono solo un’immagine poetica, ma anche, secondo i mitografi medievali, un atteggiamento e un carattere dei “melanconici” nati sotto il segno di Saturno. D’altra parte il dialogo con le fonti connota il sonetto fin dall’incipit. Il sintagma Solo et pensoso…vo appartiene infatti a una tradizione lirica che Petrarca doveva conoscere bene: la si trova, per esempio, in Cecco d’Ascoli; ma andar pensoso è anche di uso dantesco (si pensi, ad esempio, a Purg. XX, 51 o XXVI, 100).
petrarcaaa

Solo et pensoso i piú desert campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi. 4
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi: 8
Sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, che’é celata altrui. 11
Ma pu sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’ Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.  14
Il sonetto è disegnato con grande perizia formale. Nella struttura, per esempio, è palese il gusto per la simmetria e la figura binaria. In ciascuna quartina ogni proposizione ha l’estensione di due versi e la congiunzione che  lega la prima frase alla seconda è in rilievo all’inizio del v.3 di ogni strofa. Nei primi due versi risalta inoltre il ricorso alla “dittologia sinonimica”, così frequente nel linguaggio petrarchesco: solo et pensoso (v.1) in apertura di frase e tardi et lenti (v.2) in chiusura. Analogamente nella prima terzina la coppia di sostantivi monti e piagge (vv.9-10) è posta nella seconda metà del verso, mentre l’altro binomio di sostantivi (et fiumi et selve), collegato al primo dal polisindeto et…et…, si trova in incipit nel verso successivo. Il sintagma monti et piagge è di sicura memoria dantesca, come pure si colgono echi danteschi al v.12 . Un ultimo rilievo strutturale merita il v.3, in cui l’anastrofe ottiene lo scopo di anticipare efficacemente l’immagine degli occhi e di isolare, alla fine del verso, l’attributo dello sguardo che si fissa sul paesaggio. Il poeta ricorre poi a numerosi accorgimenti ritmici e fonici di particolare effetto. In tardi et lenti (v.2) l’uso ritmato dei bisillabi corrisponde foneticamente al movimento angosciato del poeta. Inoltre tra le desinenze -ampi ed e -enti c’è assonanza; si aggiunge che passi lenti è già del linguaggio dantesco (vedi Inf. XXIII, 59, Purg. XX, 151, Noi andavam con passi lenti e scarsi).