sabato 14 giugno 2014

Puccini: la vita e l'anima musicale di un autore bohémien, tra innovazione e lacerazione


“ E che l'amore, alla fine, invada tutti sulla scena, in una perorazione orchestrale.”

Così si concludeva una delle ultime lettere, datata 16 Novembre 1924, del celebre compositore Giacomo Puccini, indirizzata al critico e librettista Giuseppe Adami.
Ed è certamente l'amore per la musica ad aver tracciato la partitura della sua vita, proprio come la corrente impetuosa di un tema musicale scalfisce la bianca roccia pentagrammata.
Nato nel 1858 da una famiglia di antiche tradizioni di musicisti tre anni prima che si realizzasse il sogno dell'Unità d'Italia, Puccini appare già segnato dalla suddetta arte: sembrerebbe essere destinato, come suo padre, alla direzione della Cappella del Duomo di Lucca. Ben presto però, dopo la visione dell'Aida di Giuseppe Verdi a Pisa, la vita gli pone dinanzi una decisione concreta: il giuramento di dedizione completa al teatro musicale e dell'opera.
Grazie al sostegno economico di sua madre, il giovane Puccini si trasferisce da Lucca a Milano, dove viene introdotto nell'ambiente musicale da Amilcare Ponchielli, allora autore già affermato de “La Gioconda”. Ma egli si meriterà ben presto il titolo di “successore di Giuseppe Verdi”, (e ciò verrà anche affermato in seguito dal suo editore Giulio Ricordi) non soltanto per la fama di “cantore di gentil animo femminile portatrice di grandi passioni”, ma soprattutto per il temperamento lirico, per l'atmosfera nuova della musica europea di quegli anni, durante i quali militavano già autori del calibro di Johann Strauss, Schoenberg, Debussy, Wagner.
Puccini si trova anche a vivere a cavallo di una nuova rivoluzione d'epoca: quella cinematografica (1895); ben presto questa nuova arte di rappresentazione della realtà attraverso immagini in movimento si potrà apprezzare a pieno nelle innovazioni melodico-orchestrali e timbriche dell'autore. Ma prima di comporre vi è un attento studio sulle tradizioni musicali dei vari ambienti delle sue opere: l'America de “La fanciulla del West” spicca per l'imitazione del banjo in riferimento al jazz; il tragico epilogo di “Tosca” viene reso attraverso l'inserimento delle “campane”; il Giappone della “Madama Butterfly” viene dipinto da una variegata sequenza di colori scenotecnici e orchestrali. Del resto, questa rivoluzione scenico-musicale pucciniana frutterà ulteriore fama all'autore, poiché verrà citata in oltre trecento film, a cominciare dalla prima pellicola sonora italiana “La canzone dell'amore” di Gennaro Righelli (1928).
In seguito, la vita del cantore di Mimì, Musetta, Tosca, Manon, verrà rievocata proprio grazie all'aiuto di filmati d'epoca che lui stesso faceva realizzare. Queste brevi e innovative pellicole illustravano le sue giornate passate al pianoforte nella villa di Torre del Lago.
Ed è proprio rifacendoci alla parole <rivoluzione> e <innovazione> che possiamo comprendere pian piano le mille sfaccettature di una personalità così apparentemente completa, ma allo stesso tempo torbida e lacerata, sempre alla ricerca di un mondo ideale. La figura di Puccini infatti si trova in contemporanea a quella letteratura di “fin de siècle” (1880-1910), contrassegnata da profonde contraddizioni psicologiche, la quale ha preso parte al corso della sua biografia. Per illustrare alcune di queste contraddizioni dell'<io>, basti pensare al rapporto dell'autore con le donne, in particolare a Elvira Bonturi, dalla quale ebbe due figli, Fosca e Renato.
Dopo la fuga d'amore e il matrimonio, si instaurò tra i due un rapporto ambivalente: da una parte la tradì ben presto, cercando relazioni con donne di diverso temperamento, dall'altra rimase legato a lei, nonostante le sue crisi violente e il suo carattere drammatico e possessivo. Secondo Giampaolo Rugarli, tutte le protagoniste delle opere pucciniane si riassumono e si rispecchiano sempre e solo nella moglie Elvira, che sarebbe stata l'unica figura femminile capace di dargli ispirazione, nonostante l'incomprensione che portava verso l'estro del compositore."Piccole anime per grandi passioni"
sarà una delle frasi emblema di Puccini, ovvero le storie di gente comune travolta da sentimenti, eventi, passioni eccezionali.

E per la serie “contraddizioni”, si rievochi il rapporto fecondo, se pur tormentato, di Puccini con i suoi librettisti (Illica e Giacosa) e il tentativo invece infruttuoso di collaborare con D’Annunzio (il quale cerca un teatro più sfarzoso ed intellettuale, mentre Puccini sente la poesia delle piccole cose); e ancora collegata alla lacerazione biografica compare la composizione dell'opera “La Bohème” (ispirata dal romanzo “Scènes de la vie de bohème” di Henry Murger): le musiche sono cariche di una sorta di eccitamento febbrile, mai tradotto in gioia, e sempre preludio di catastrofi. Il tempo melodico qui appare diluito in una sorta di languori, snervanti e lenti.
La contraddittoria biografia dell'autore si conclude nel post-prima Guerra mondiale – che Puccini odia e depreca (“Se non finisce la guerra, cosa ne farà il mondo della musica?” cit.), tempo in cui comporrà il “Trittico” (
“Il Tabarro”, “Suor Angelica”, “Gianni Schicchi”, di ispirazione dantesca e in stile viennese); ciò nonostante, gli sembrerà di non essere più in armonia con i tempi nuovi, poiché incapace di rinnovarsi nella sua musica. Opera ultima, rimasta incompiuta, è “Turandot”, considerata dalla critica uno dei suoi lavori più belli, di stampo esotico, e ispirata alla tragicommedia di Gozzi. La composizione verrà interrotta dalla malattia dell'autore: colpito da cancro alla gola, morirà successivamente in una clinica di Bruxelles, nel 1924. Il lavoro viene eseguito alla Scala il 25 aprile del 1926, sotto la direzione di Arturo Toscanini. Punto saliente dell'opera è il sacrificio del personaggio di Liù, ultimo grande carattere femminile pucciniano. Il direttore, arrivato a quel punto inviterà tutti, orchestra e pubblico, al alzarsi in piedi, dicendo: “Qui l’opera finisce per la morte dell’autore”. La grande innovazione pucciniana qui visibile è la mescolanza dell'elemento favolistico di Gozzi con l'aspetto tedesco schilleriano, che insieme declinano in chiave fiabesca la perenne lotta amorosa tra i sessi, argomento ostico per l'epoca dell'autore, che si rifletteva in maniera palese nella sua stessa biografia. E' così che la vita umana bohémienne e i suoi problemi vengono necessariamente traslitterati in musica e sulla carta, lasciando tracce indelebili nella storia, tra innovazione e lacerazione.

La musica? Cosa inutile. Non avendo libretto come faccio della musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena. Potessi essere un sinfonico puro, ingannerei il mio tempo e il mio pubblico. Ma io? Nacqui tanti anni fa, tanti, troppi, quasi un secolo... e il Dio santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: <Scrivi per il teatro: bada bene, solo per il teatro> e ho seguito il supremo consiglio. Contro tutto e contro tutti, fare opera di melodia!” - Giacomo Puccini 




Francesca Papagni
1Riferimenti bibliografici: F. D’Amico, L’albero del bene e del male. Naturalismo e Decadentismo in Puccini, Pacini Fazzi, Lucca, 2000

L'articolo è visibile anche sul quotidiano online www.ventonuovo.eu, alla voce Arte, Musica e Letteratura. Per leggerlo, clicca QUI

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