In questo celeberrimo sonetto, composto prima del 1337, Francesco Petrarca ritrae sé stesso alla ricerca di luoghi segreti dove fuggire per celare agli altri il suo amore per Laura (prima quartina), chiaramente riconoscibile nel suo aspetto afflitto, e salvarsi così dalla vergogna che gliene deriverebbe (seconda quartina). Nessuno dunque conosce il suo sentimento, ad eccezione del paesaggio che lo ospita (prima terzina), ma non c’è via tanto solitaria che lo preservi dall’affanno amoroso (seconda terzina). La solitudine del poeta, intesa come schermo dalle parole della gente, è dunque il tema centrale del sonetto, che, in risalto per posizione incipitaria, ritorna in ogni strofa.
Il critico Francesco De Sanctis dette una celebre lettura in chiave romantica di questa lirica, individuandovi una delle situazioni topiche della poesia petrarchesca: l’innamorato che dialoga malinconicamente con un paesaggio dai confini dilatati a dismisura per distendere e appianare le proprie ansie interiori. Il paesaggio diviene così un interlocutore complicato e silenzioso, a cui il poeta può rivelare segreti negati agli uomini, una sorta di “correlativo oggettivo”, che coi suoi luoghi ritrosi e inospitali riproduce e consola l’animo ferito dall’amore. Questa lettura di impostazione romantica (il sonetto fu molto amato daFoscolo e Alfieri) prescindeva però dalla conoscenza delle fonti cui questa lirica si ispira e che oggi sono messe in luce dai commentatori giustamente attenti al problema dell’intertestualità letteraria. Petrarca, infatti, fa proprie le situazioni di Bellerofonte (l’eroe omerico che, inviso agli dei, cerca la solitudine e fugge ogni presenza umana), che egli non conosceva direttamente dalla fonte greca, ma soltanto attraverso la mediazione latina di Cicerone nelle Tusculanae Disputationes. Petrarca dunque, secondo un suo procedimento caratteristico, proietta su un mito classico la propria vicenda personale, come rivela anche la presenza del medesimo mito in altre sue opere, quali il Secretum, le Seniles e le Invectivae contra medicum quendam. Si aggiunga inoltre che i passi tardi et lenti non sono solo un’immagine poetica, ma anche, secondo i mitografi medievali, un atteggiamento e un carattere dei “melanconici” nati sotto il segno di Saturno. D’altra parte il dialogo con le fonti connota il sonetto fin dall’incipit. Il sintagma Solo et pensoso…vo appartiene infatti a una tradizione lirica che Petrarca doveva conoscere bene: la si trova, per esempio, in Cecco d’Ascoli; ma andar pensoso è anche di uso dantesco (si pensi, ad esempio, a Purg. XX, 51 o XXVI, 100).
Il critico Francesco De Sanctis dette una celebre lettura in chiave romantica di questa lirica, individuandovi una delle situazioni topiche della poesia petrarchesca: l’innamorato che dialoga malinconicamente con un paesaggio dai confini dilatati a dismisura per distendere e appianare le proprie ansie interiori. Il paesaggio diviene così un interlocutore complicato e silenzioso, a cui il poeta può rivelare segreti negati agli uomini, una sorta di “correlativo oggettivo”, che coi suoi luoghi ritrosi e inospitali riproduce e consola l’animo ferito dall’amore. Questa lettura di impostazione romantica (il sonetto fu molto amato daFoscolo e Alfieri) prescindeva però dalla conoscenza delle fonti cui questa lirica si ispira e che oggi sono messe in luce dai commentatori giustamente attenti al problema dell’intertestualità letteraria. Petrarca, infatti, fa proprie le situazioni di Bellerofonte (l’eroe omerico che, inviso agli dei, cerca la solitudine e fugge ogni presenza umana), che egli non conosceva direttamente dalla fonte greca, ma soltanto attraverso la mediazione latina di Cicerone nelle Tusculanae Disputationes. Petrarca dunque, secondo un suo procedimento caratteristico, proietta su un mito classico la propria vicenda personale, come rivela anche la presenza del medesimo mito in altre sue opere, quali il Secretum, le Seniles e le Invectivae contra medicum quendam. Si aggiunga inoltre che i passi tardi et lenti non sono solo un’immagine poetica, ma anche, secondo i mitografi medievali, un atteggiamento e un carattere dei “melanconici” nati sotto il segno di Saturno. D’altra parte il dialogo con le fonti connota il sonetto fin dall’incipit. Il sintagma Solo et pensoso…vo appartiene infatti a una tradizione lirica che Petrarca doveva conoscere bene: la si trova, per esempio, in Cecco d’Ascoli; ma andar pensoso è anche di uso dantesco (si pensi, ad esempio, a Purg. XX, 51 o XXVI, 100).
Solo et pensoso i piú desert campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi. 4
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi. 4
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi: 8
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi: 8
Sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, che’é celata altrui. 11
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, che’é celata altrui. 11
Ma pu sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’ Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui. 14
cercar non so ch’ Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui. 14
Il sonetto è disegnato con grande perizia formale. Nella struttura, per esempio, è palese il gusto per la simmetria e la figura binaria. In ciascuna quartina ogni proposizione ha l’estensione di due versi e la congiunzione che lega la prima frase alla seconda è in rilievo all’inizio del v.3 di ogni strofa. Nei primi due versi risalta inoltre il ricorso alla “dittologia sinonimica”, così frequente nel linguaggio petrarchesco: solo et pensoso (v.1) in apertura di frase e tardi et lenti (v.2) in chiusura. Analogamente nella prima terzina la coppia di sostantivi monti e piagge (vv.9-10) è posta nella seconda metà del verso, mentre l’altro binomio di sostantivi (et fiumi et selve), collegato al primo dal polisindeto et…et…, si trova in incipit nel verso successivo. Il sintagma monti et piagge è di sicura memoria dantesca, come pure si colgono echi danteschi al v.12 . Un ultimo rilievo strutturale merita il v.3, in cui l’anastrofe ottiene lo scopo di anticipare efficacemente l’immagine degli occhi e di isolare, alla fine del verso, l’attributo dello sguardo che si fissa sul paesaggio. Il poeta ricorre poi a numerosi accorgimenti ritmici e fonici di particolare effetto. In tardi et lenti (v.2) l’uso ritmato dei bisillabi corrisponde foneticamente al movimento angosciato del poeta. Inoltre tra le desinenze -ampi ed e -enti c’è assonanza; si aggiunge che passi lenti è già del linguaggio dantesco (vedi Inf. XXIII, 59, Purg. XX, 151, Noi andavam con passi lenti e scarsi).
Nessun commento:
Posta un commento