di
Francesca Papagni
La commedia portata in scena da
Salvatore Sassano e dalla sua compagnia teatrale
“Libera-Menti”,
quest'anno si è fatta portatrice di nefasti ma allo stesso tempo
realistici ed esplicativi messaggi, estrosamente espressi in una
rilettura contemporanea, essenziale, sapiente, satirica e sagace del
quotidiano dalle intuizioni registiche e sceno-tecniche.
Volutamente minimalista, oscura e simmetrica la scenografia e i
giochi di luce in essa inseriti, per sottolineare l'inarrivabilità
del voler provare a mutare il corso e il decorso degli eventi in
determinati contesti sociali. E non potevano che essere sperimentali
e rock gli intermezzi musicali in sottofondo.
Il potere, interpretato
secondo le intuizioni primarie di una clac politica al limite
tra credibilità e stravaganza, illustrato dal vivo entusiasmo del
decostruire per ri-cominciare, reso da salde alleanze e
dall'ipotetica creazione di un partito deciso, risoluto, diretto al
cuore delle masse costrette in seguito a subirne le stesse influenze
tanto concrete quanto grottesche, diviene, nel primo atto l'argomento
assoluto, quasi monarchico, fra argomentazioni abituali, ironiche
arringhe ed eclatanti colpi di scena, egregiamente resi dalla
recitazione, addirittura mordace e caricaturale degli attori in
scena. Ben presto, a conti e tornaconti fatti, diviene tuttavia
miseria per gli stessi seguaci, per il suo capostipite,
o meglio, sindaco
cialtrone, e per ogni tipo di sentimentalismo, al
quale viene lasciato nel finale uno stringato, impacciato e incredulo
fraseggio depositivo, a definizione di una dimensione governativa
asettica e vuota, alla quale si viene passivamente condannati. La
realtà dei fatti diviene un meccanismo dispotico atrocemente veloce
negli ultimi passaggi di scena; non c'è tempo né spazio per alcun
tipo di riflessione personale: la forza decisionale e democratica dei
pochi consiglieri amici-nemici non lascia scampo a quello spiraglio
di positività che tende al cambiamento.
Lo stesso potere, nel secondo
atto celebrato dai fasti di un'azienda talmente perfetta da risultare
irreale all'occhio umano, dallo sfarzo e dall'esagerazione del lusso
aziendale diventa un vortice di messaggi pressanti e soffocanti,
talmente veloci da creare attimi di panico e silenzi singhiozzanti
sulla scena, generati da monologhi sfiniti e infiniti, quasi al
limite del patetico, da una chiara linea di meccanismi machiavellici
di chi è al di sopra del già di sopra, da forze innominabili e
subdole, contro le quali ogni opposizione risulta economicamente
destinata a fallire. Protagonisti assoluti della scena, in questa
tranche, uniti ai vertici di una scenografia spigolosa, come in un
triangolo isoscele dalle linee duramente definite, fra monologhi e
frecciate a volte beffarde, a volte titubanti, un direttore
decisamente troppo permissivo
e vulnerabile, la sua azienda, quasi casa-famiglia, e i
suoi più stretti collaboratori; l'atmosfera del fallimento di
ogni potere e decisione economica è ben raffigurata dall'alternanza,
in ogni dialogo, dai convincenti messaggi “promozionali” delle
segretarie d'ufficio, e della sua stessa prole, i quali non si
lasciano sfuggire un colpo per confondere nella maniera più totale e
vigliacca lo stesso direttore. Ogni sentimento è ambivalente; ogni
potere è destinato ancora una volta a divenire miseria in un
crollo; l'amore qui equivale solo a promozione, si fa passaggio ad
una carica superiore, talmente alta da esplodere per sfinire nel
finale il suo promotore, il quale tracolla impotente sulla scrivania,
agonizzante e soffocato da mille promesse e mille debiti mai saldati,
fra chiamate assillanti e avvisaglie, tradito dai suoi stessi
affetti, diventati ormai distruttori e divoratori della sua propria
economia sentimentale.
Il terzo atto è in maniera conclusiva
ciò che si può definire un'implosione della parola rivoluzione,
resa scenicamente dalla sospensione
a divinis di un parroco
fin troppo sui generis,
ambizioso e senza pregiudizi. La tranquillità di una comunità, in
questo caso sagrestia,
apparentemente passiva e oltrepassata a livello di vissuto, viene
sconvolta dal suo arrivo e dalla sua permanenza, la quale si rivela
col tempo innovativamente troppo irrequieta, sprezzante e veritiera
per chi è abituato a celarsi sotto il velo sacro di un'intoccabile
ipocrisia, cantata e suonata a modo da citazioni che si rifanno al
cantautorato italiano e da esposizioni di rimorsi e autocoscienze,
fantasticamente rese in scena dall'inserimento al lato della
scenografia di due attori-burattini, in grado di sentenziare
miseramente l'abitudinario corso degli eventi ai quali si assiste
ogni giorno. E si scoprono dunque gli altarini del ruolo di ognuno di
noi non solo in quella sagrestia, bensì nell'ordinario. Ogni frase
pronunziata è come una lama nel petto, e non risparmia niente e
nessuno. Nemmeno la sensibilità di una suora, di una coordinatrice
canora vengono preservate, perché ritenute obsolete e false. Perfino
il segreto della confessione dei sagrestani e un passaggio di
carriera di un fedelissimo seguace ecclesiastico vengono senza alcuna
pietà spiattellati dinanzi alle platee dalla lingua tagliente
dell'impavido sacerdote; ma anche i suoi insoliti e straordinari
progetti sono destinati nel finale alla deriva. L'abitudinario
ancora una volta scavalca il rinnovamento e
si stanzia immobile nella realtà come una calamita sul ferro. La
scomunica è doppia
nel finale: non solo quella del pastore condottiero dalla sua
comunità, ma anche quella del cambiamento a fronte delle viste e
riviste consuetudini.
E noi, pubblico di
una vita già vissuta, siamo effettivamente pronti alla novità, o
siamo destinati a subire ancora il trapasso, la passività di un
finale già scritto in una comune e banale storiella?
Un quesito che
lascia spettatori e attori immobili, con l'amaro in bocca, e
riflessioni ancora acerbe per poter essere esplicate.
Tutto questo è
“Lu Rè”, trattato di un'assurda perspicacia, capace di ribaltare
la tranquillità di qualsiasi platea, al passo con chiari riferimenti
alla letteratura moderna novecentesca e alle strutture politiche
arcadiche. Tutto questo è il potere nella miseria, e la miseria
stessa rivelatrice di un potere già definito da pochi, eletti,
destinati a rimanere, forse immutabili, nel tempo.
“
Il
potere non è un mezzo, è un fine.
Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione;
Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione;
ma si fa
una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura.
Il fine della persecuzione è la persecuzione.
Il fine della tortura è la tortura.
Il fine del potere è il potere.” - George Orwell, 1984
Il fine della persecuzione è la persecuzione.
Il fine della tortura è la tortura.
Il fine del potere è il potere.” - George Orwell, 1984
Sentiti
ringraziamenti a Salvatore Sassano, Matteo D'Apolito e Christian
Palladino per la regia e i movimeni scenici, Salvatore Marchesani e
Giuseppe D'Altilia per la scenografia e le luci, Luigi Pagliara per
le musiche, e a tutto il resto dello staff della compagnia teatrale
“Libera-Menti”.
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